Vaclavské, la chiamano i praghesi, con profondo rispetto. Oggi brulica di negozi, insegne a neon e giardini: per qualcuno sono gli Champs-Elysée di Praga. Ma piazza San Venceslao è molto di più: da qui, nel 1918, partono le rivolte antiasburgiche, e qui si ritrovano i praghesi che protestano contro l’arrivo dei carri armati russi, corsi in città per smorzare sul nascere, costi quel che costi, la “Primavera di Praga” iniziata con la salita al potere del riformista Alexander Dubček, che aveva in mente un socialismo democratico, con diritti come la libertà di stampa, di movimento, di parola, di associazione. Troppo per il partito comunista, che riprende il controllo sostituendo Dubčekcon Gustáv Husák, lesto a cancellare ogni riforma e a riportare indietro il nastro.
È la fine di un sogno vissuto da migliaia di studenti e intellettuali che per il loro futuro immaginavano un paese diverso: un’illusione spezzata dai 2000 carri armati e 200mila soldati che la notte del 20 agosto 1968 invadono la Cecoslovacchia. Dubček chiede alla popolazione di evitare la resistenza, ma 72 persone pagano con la vita e altre migliaia lasciano di corsa il paese. Sulla Cecoslovacchia cala la solidarietà di molti paesi, ma nulla di più: l’Unione Sovietica fa paura e il paese piomba nella rassegnazione di un destino ineluttabile.
Jan Palach, uno studente dell’Università Carlo IV di Praga, non ci sta: vive con entusiasmo la stagione del riformismo del suo paese e non accetta che i suoi connazionali si arrendano. Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 arriva in piazza Venceslao e si ferma ai piedi della scalinata che porta al Museo Nazionale: si versa addosso una tanica di benzina e si dà fuoco. Attraversa la piazza di corsa, avvolto dalle fiamme: un tram lo urta, cade a terra e la gente tenta di spegnere il fuoco. È una morte lentissima e dolorosa: Palach resta vivo e cosciente per tre giorni, raccontando ai medici di aver voluto imitare i gesti estremi dei monaci buddhisti del Vietnam. Il 19 gennaio muore: ai suoi funerali partecipano 600mila persone che sfilano in un silenzio impressionante, e la sua tomba diventa un luogo di pellegrinaggio. Infastidita, la polizia segreta, la “STB”, ordina di esumare il cadavere, cremarlo e restituire le ceneri alla madre.
Quel giorno, Jan Palach aveva con sé una sacca che lascia a distanza dal fuoco, piena di appunti e articoli che diventano il suo testamento. “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e scuotere le coscienze. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Esigiamo l’abolizione della censura: se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia si infiammerà”.
Di quel gruppo non fu mai trovata traccia, ma non importa, perché il nome di Jan Palach, malgrado la campagna diffamatoria, finisce dritto nell’elenco degli eroi e dei martiri antisovietici. Altri sette studenti seguiranno il suo esempio togliendosi la vita, ma di loro si saprà poco, masticati dal silenzio imposto dalla censura.
Nel 1990, il presidente Váklav Havel dedica una lapide al sacrificio di un ragazzo di 21 anni morto per gli ideali in cui credeva. È una croce in bronzo che sembra emergere dai ciottoli: la posizione indica quella in cui Jan è caduto a terra. Ci sarebbero voluti altri vent’anni per riconquistare la libertà: la “rivoluzione di velluto” del 1989 che finalmente rovescia il regime di Gustáv Husák.