Dall’alto, dai finestrini di un aereo, il “Grand Canyon” si mostra per quello che è: una gigantesca frattura della crosta terrestre lunga quanto un incubo. Ma è niente, rispetto allo spettacolo di trovarsi sull’orlo di una gola scavata nel corso di migliaia di anni dal fiume Colorado, con la collaborazione di vento e sole. Lì davanti manca il fiato, e la sensazione di essere un brufolo di fronte alla potenza del creato, diventa netta e palpabile. Il Grand Canyon è un’immensa meraviglia che nessuna foto potrà mai spiegare: cambia colore in base all’angolazione del sole e verso sera diventa una tavolozza di rossi, gialli e arancioni. Fra quelle rocce, a volte taglienti come lame, vive la l’aquila calva, amatissimo simbolo degli Stati Uniti d’America, ma anche serpenti a sonagli, condor e pipistrelli.
Il “Grand Canyon National Park” compie 100 anni in questi giorni: un’inezia, rispetto ai quasi due miliardi di anni di storia della Terra che l’erosione lenta e costante del Colorado River ha permesso di individuare. Il primo a trovarsi sull’orlo del precipizio fu García López de Cárdenas, esploratore spagnolo che nel 1540 parte dal New Mexico deciso a scovare il fiume sacro degli indiani Hopi e la zona che loro chiamavano “Kaibab”, montagna a testa in giù. Lo accompagna il maggiore John Wesley Powell, che nel suo diario descrive la zona come “Le pagine di un immenso libro di storia”. La zona diventa celebre nel giro di poco e fra i primi estimatori ha il presidente Theodore Roosevelt, che amava cacciare i puma almeno quanto sedersi ad ammirare il paesaggio.
Il Grand Canyon, nell’Arizona settentrionale, è una frattura lunga 446 km profonda fino a 1.857 metri causata dal “Colorado Plateau”, zona che oltre all’Arizona tocca altri quattro stati: Nevada, Utah, New Mexico e Colorado. Secondo le statistiche, fra i milioni di visitatori che ogni anno attira, circa 600 persone sono morte cadendo dal ciglio dello spaventoso burrone: in 50 casi accertati si è trattato di incidenti, 65 per ipotermia e disidratazione, 7 a causa dei violenti temporali, 78 annegate nel fiume Colorado, 25 a causa della caduta di rocce, 47 suicidi e 24 omicidi. A questi vanno aggiunti i 242 passeggeri vittime di numerosi incidenti aerei.
Il canyon divide il parco, istituito nel 1919, in due metà: il “North Rim” e il “South Rim”, ambedue dotati di centro visitatori e servizi, ma privi di un collegamento diretto. Per capire la vastità della frattura, per raggiungere i due punti bisogna mettere in conto 354 km di strada. Il “North Rim”, chiuso in inverno per il clima, si raggiunge in auto seguendo la AZ-67: gli aeroporti più vicini sono Flagstaff, Phoenix, Salt Lake City e Las Vegas, ma conviene ricordare che il concetto di vicinanza negli Stati Uniti e molto labile e fondamentalmente diverso da quello europeo. ma è meglio tener conto che gli alberghi per dormire in zona sono pochi e vanno prenotati per tempo, e i servizi sono essenziali: un ufficio postale, un negozio di souvenir e un locale dove mangiare qualcosa. In diversi punti inutile insistere: non esiste copertura per il cellulare.
Il “South Rim” è la zona più facilmente accessibile: aperta tutto l’anno, dista un paio d’ore da Flagstaff, località che fra l’altro fa parte della leggendaria “Route 66”.
Zona sacra alle tribù indiane, ancora oggi ospita gli insediamenti della tribù degli “Havasupai”, che storcendo il naso hanno dovuto cedere all’invasione dei turisti e alla colonizzazione caciarona dei “visi pallidi”. Ogni anno, a settembre, la “Windows Rock”, sede del governo e capitale della “Navajo Nation”, ospita un festival musicale, mentre chi ama le sensazioni forti non può evitare lo “Skywalk” del “West Rim”: un ponte in vetro sospeso su uno sperone di roccia che permette di “camminare” a 1.300 metri dal suolo.