
Quando è stata inghiottita dall’Africa che tanto amava, Silvia Romano si trovava a Chakama, Kenya, un’ottantina di km da Malindi. E se in Italia si moltiplicano le iniziative, tutte segnate dall’hashtag #SilviaLibera, in Kenya sta avvenendo l’esatto contrario. Una parte stampa locale sembra aver iniziato una campagna di delegittimazione di Silvia e del lavoro che stava svolgendo in Africa, un’altra corrente di pensiero propende invece per uno stralunato traffico internazionale e clandestino di avorio, per finire con una ricostruzione al momento tanto fantasiosa quanto drammatica: Silvia sarebbe rimasta uccisa in uno scontro a fuoco fra i suoi rapitori e dei terroristi di Al Shabaab dopo un tentativo finito male di vendere l’ostaggio. Quanto di tutto questo sia montato ad arte, per nascondere agli occhi del mondo l’incapacità della polizia locale non è chiaro. Ma non è il momento giusto: anche la famiglia di Silvia ha chiesto fin dall’inizio il massimo riserbo. Su questo, ci sono casi passati che fanno capire quanto la famiglia Romano abbia ragione: lo sciacallaggio mediatico di casi come quello delle due Simone, Simona Torretta e Simona Pari, sequestrate a Baghdad il 7 aprile del 2004 e liberate dopo 19 giorni di prigionia il 28 settembre successivo. O ancora quello di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite ad Aleppo nel 2014 e rilasciate a fine gennaio 2015.
La certezza, a quanto si apprende, è che anche gli abitanti di Tana River, dove secondo le ultime indiscrezioni Silvia potrebbe essere tenuta prigioniera, hanno smesso di collaborare con le autorità. Dei rapitori, tre uomini, sono stati perfino diffusi dei cartelli con tanto di nome, cognome e foto. Ma anche di loro, non si sa più nulla.