Cinque anni fa, il 12 dicembre del 2015, i rappresentanti di 196 Paesi riuniti a Le Bourget per la “XXI Conferenza delle Parti dell’UNFCCC”, raggiungono un accordo sui cambiamenti climatici, dandosi l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto della soglia dei 2°. Cinque anni dopo, i potenti del mondo ci riprovano: si sono ritrovati– questa volta in modo virtuale – al “Climate Ambition Summit”, con l’evidente e pesante assenza degli Stati Uniti, del Brasile e dell’Australia. Li ha accolti il drammatico appello di Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, che ha esortato tutti a “dichiarare lo stato di emergenza climatica nei propri Paesi”.
“Se non cambiamo subito rotta – ha aggiunto Guterres – ci dirigeremo verso un aumento catastrofico della temperatura media di oltre 3 gradi centigradi in questo secolo”. Una sfida che sembra essere stata accolta dai Paesi più inquinanti del pianeta come la Cina, che attraverso il presidente Xi Jinping ha assicurato l’intenzione di ridurre le emissioni di carbonio del 65% entro il 2030, raggiungendo la neutralità nel 2060. Xi ha illustrato il piano che fra 10 anni porterà la Cina ad avere un consumo energetico da fonti rinnovabili del 25%. La stessa promessa dell’India, un altro dei Paesi più inquinanti al mondo, che prevede entro il 2030 di raggiungere i 450 Gw entro il 2030, e non più tardi del 2047 di “raggiungere e superare le aspettative”. La UE ha annunciato un’ulteriore diminuzione delle emissioni del 55% entro il 2030, e il regno Unito del 68%.
Al prossimo vertice annuale, previsto a Glasgow, in Scozia, saranno presenti gli Stati Uniti, come annunciato da un messaggio del presidente eletto Joe Biden in cui assicura il ritorno dell’America ai programmi per l’emergenza climatica non appena assumerà l’incarico presidenziale. “Welcome back”, ha commentato il presidente francese Emmanuel Macron.