di Marco Belletti
All’inizio furono le “suffragette” - le appartenenti al movimento di emancipazione femminile nato per ottenere il diritto di voto - termine che negli anni ha finito per coincidere con femminista, nel senso di donna che lotta per il riconoscimento di tutti i suoi diritti.
La prima richiesta ufficialmente nota di riconoscere i diritti delle donne risale al 1789, con la presentazione all’Assemblea Rivoluzionaria francese dei “Cahier de doléances des femmes”. Nello stesso periodo e sempre in Francia, Olympe de Gouges pubblicò “Le prince philosophe”, romanzo in cui rivendicava i diritti di voto delle donne. Tuttavia, quando criticò apertamente Robespierre fu arrestata e ghigliottinata, nel 1793.
In realtà è più corretto parlare di suffragette solo a partire dal 1869, quando nel Regno Unito fu creato un movimento nazionale per rivendicare il diritto di voto, allora non riconosciuto: questo movimento divenne nel 1897 la Società nazionale per il suffragio femminile (National Union of Women’s Suffrage). Paradossalmente, la fondatrice Millicent Fawcett fu costretta a convincere - con scarso successo - gli uomini ad aderire al movimento in quanto in quel periodo erano gli unici a poter legalmente concedere il diritto di voto.
Il termine suffragetta deriva dalla parola suffragio, cioè il diritto di una determinata categoria di persone a votare in qualsiasi tipo di elezione: all’inizio in Italia fu usato il termine suffragista ma come spesso accade in situazioni analoghe, la parola inglese suffragetta (errata nella nostra lingua) si affermò rapidamente nell’uso comune e soppiantò quella etimologicamente più corretta.
Ma è solo con il Novecento che le suffragette attuarono azioni dimostrative particolarmente clamorose, come per esempio incatenarsi a ringhiere, fare scioperi della fame, distruggere beni pubblici… Alcune morirono nelle manifestazioni, molte furono incarcerate ma alla fine riuscirono a ottenere ciò per cui lottavano: nel 1918 il parlamento del Regno Unito approvò la proposta del diritto di voto per le donne, limitandolo alle signore sposate di almeno 30 anni. Solo più tardi, nel 1928, il suffragio fu esteso a tutte le altre. In Italia, il primo suffragio femminile risale alle elezioni amministrative della primavera del 1946 e al successivo referendum del 2 giugno per scegliere tra repubblica e monarchia.
Ma le donne anglosassoni, una volta conquistato il diritto di voto, non si arrestarono e proseguirono nella loro lotta verso una totale emancipazione.
Nacquero così le “flapper” (in slang ‘chi batte le ali’, ovvero una ragazza da poco diventata donna): una generazione di donne che nei ruggenti anni Venti del Novecento si distinguevano per il trucco eccessivo, una certa libertà nel bere alcolici e fumare in pubblico, guidare automobili da sole e soprattutto per la loro sessualità disinvolta con cui violavano la severa morale del tempo. Per carità, niente di davvero eccessivo: le flapper per prime mostrarono le caviglie in pubblico, indossarono abiti e gonne corti, diedero vita alla moda dei capelli tagliati a caschetto, ascoltavano il jazz e ballavano da sole l’iconico ballo di quel periodo: il charleston. In linea di massima disdegnavano i comportamenti da “brava ragazza”, ma nonostante tutto fecero tendenza sia nella moda sia nel liberalizzare il concetto che le donne potessero comportarsi esattamente come gli uomini.
Celebri flapper furono le scrittrici Zelda Sayre (moglie dell’autore del Grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald) e Anita Loos, che resero popolare il loro look e il loro stile di vita, trasformandoli in esempi da imitare in quanto donne attraenti, temerarie e indipendenti. Negli anni Trenta i fratelli disegnatori Fleischer crearono in un cartone animato in bianco e nero un personaggio femminile che divenne l’icona delle flapper: “Betty Boop”.
È solo con una nuova generazione di donne, non ancora nate all’epoca delle flapper, che il movimento di emancipazione della donna esce da un contesto tipicamente femminile (benché, a modo suo, contestatario) per entrare in una nuova dimensione in cui si appropria di strumenti tipicamente maschili per combattere ad armi pari le proprie cause.
Si tratta di cantanti rock che scrivono e cantano i loro testi, attrici che interpretano ruoli che non prevedono necessariamente un fisico femminile, artiste che utilizzano nuove forme per provocare l’opinione pubblica inserendo nelle loro opere forti messaggi di contestazione sociale e politica.
Una di queste artiste - che ha operato per lungo tempo nel campo della performance art e del video - è morta una decina di giorni fa, a 79 anni. Si tratta della statunitense Carolee Schneemann, pioniera della body art e della performance, conosciuta per i suoi provocanti lavori sul corpo femminile e per aver trattato senza timidezze i tabù della nudità e della sessualità.
L’artista ha insegnato in varie prestigiose università statunitensi e le sue opere - via via definite “fluxus”, “neo-dada”, “beat”, “happening” - sono state esposte in numerosi musei americani ed europei.
Nata in Pennsylvania nel 1939, Carolee Schneemann iniziò come pittrice negli anni Cinquanta ma quasi subito si trasformò in una performance artist femminista. Divenne famosa nel 1963 con “Eye Body”, un ambiente che comprendeva diversi oggetti e in cui l’artista fece diventare se stessa parte della performance, ricoprendosi con grasso, gesso, plastica e facendosi fotografare per documentare l’opera. In una di queste immagini (realizzate dall’artista islandese Erró, pseudonimo di Guðmundur Guðmundsson), la Schneemann metteva in mostra senza censure la clitoride.
Risale al 1964 “Fuses”, un cortometraggio di una ventina di minuti in cui Schneemann si riprese a fare sesso con il suo compagno dell’epoca, il compositore James Tenney, osservati da un gatto. L’artista con quest’opera volle instillare nel pubblico un dubbio: la rappresentazione del sesso da parte di una donna è differente dalle numerose e varie raffigurazioni proposte dall’arte tradizionale o addirittura dalla pornografia, nelle quali prevale da sempre il punto di vista maschile?
Nella prima metà degli anni Settanta l’artista si fece appendere nuda al soffitto di una stanza vuota con una sorta di lungo elastico, ondeggiando in ogni direzione per tracciare con il proprio corpo linee e disegni su pavimento e pareti: una vera critica all’espressionismo astratto, allora dominio esclusivo di artisti uomini.
L’opera più famosa della Schneemann è “Interior Scroll” del 1975: dopo essersi tracciata alcune linee sul corpo completamente nudo, l’artista srotolava una sorta di lungo papiro che aveva precedentemente sistemato all’interno della vagina e ne leggeva le frasi scritte sopra. Una performance che conteneva rimandi simbolici all’arte classica, al ciclo della vita, alla ritualità.
Tra i numerosi riconoscimenti che le sono stati conferiti, il più prestigioso è senza dubbio il Leone d’oro alla carriera ricevuto nel 2017 alla “Biennale di Venezia”.
L’arte di Carolee Schneemann ha influenzato numerose donne che in un modo o nell’altro l’hanno imitata e le sono debitrici. La serba Marina Abramović, una performance artist che esplora le relazioni tra l’artista e il pubblico. Yoko Ono, artista e musicista giapponese che assunse notorietà mondiale dopo il matrimonio con John Lennon; Stefani Germanotta, cantautrice, attrice e attivista statunitense che ispirandosi alla canzone “Radio Ga Ga” dei Queen ha scelto lo pseudonimo di Lady Gaga. Cynthia Sherman, detta Cindy, fotografa e regista statunitense che si è creata una certa notorietà soprattutto grazie ai suoi cosiddetti autoritratti concettuali in cui interpreta il doppio ruolo di fotografa e fotografata in alcuni stereotipi femminili.
In realtà il lavoro di Schneemann è piuttosto difficile da classificare e analizzare. La stessa artista affermò di aver usato la nudità nelle sue opere per rompere i tabù associati al corpo umano in movimento, dimostrando che “la vita del corpo è più variamente espressiva di quanto una società negativa al sesso possa ammettere”. Sicuramente l’eredità artistica più forte ed emblematica di Schneemann è quando afferma che “in un certo senso ho fatto dono del mio corpo ad altre donne, restituendo il nostro corpo a noi stesse”.