Di Marco Belletti
Émile Bernard era un tipo geniale: un grande artista piuttosto permaloso che fece parte di un ristretto gruppo di pittori – tra cui Toulouse-Lautrec, Gauguin e Van Gogh – attivi a Parigi a fine Ottocento che contribuirono alla nascita della cosiddetta scuola di Pont-Aven, alla base di nuovi movimenti artistici in netto distacco dall’Impressionismo.Ventenne, nel 1888 Bernard divenne famoso per “Donne bretoni su un prato verde” che lasciò il segno nello stile pittorico del suo gruppo e nella storia dell’arte, tanto che sono numerosi i critici che inseriscono l’opera tra i massimi capolavori dell’arte occidentale.
Soprattutto Paul Gauguin fu affascinato dal dipinto, in quanto lo considerò il punto di svolta che cercava da tempo: colori puri e accesi, contorno di una linea scura, prospettiva quasi ignorata a favore della bidimensionalità, forme definite e incuranti della verosimiglianza, forte impatto emotivo. Anzi, Gauguin realizzò subito alcune opere copiando lo stile di Bernard e si attribuì i meriti della nascita del Cloisonnisme (così fu chiamato il nuovo movimento) tanto da far infuriare l’amico che, in aperta polemica, abbandonò il gruppo e manifestò per il resto della vita un’evidente astio nei confronti di quello che fino ad allora era stato per lui un maestro da imitare. Il giovane pittore restò invece molto legato a Van Gogh – che aveva mantenuto un atteggiamento corretto nei suoi confronti – e dopo che questi si uccise, Émile Bernard organizzò anche un paio di mostre postume da cui si originò il mito del grande pittore olandese.
E partecipò anche al funerale dell’amico (evento cui dedicò l’opera “I funerali di Vincent Van Gogh”) il 30 luglio 1890, giorno successivo la morte dell’artista. Da alcune settimane Van Gogh aveva lasciato la clinica di Saint-Rémy-de-Provence nei pressi di Arles – dove non riceveva nessun trattamento, se non due bagni ghiacciati alla settimana per curargli quella che i medici credevano fosse epilessia – e si era recato ad Auvers-sur-Oise (paese a nord di Parigi) per restare più vicino al fratello Theo. La sera di domenica 27 luglio, dopo essere uscito per dipingere i suoi quadri nelle campagne che circondavano il paese, Van Gogh rientrò sofferente nella camera della locanda che lo ospitava. La mattina dopo non si fece vedere, l’oste salì a cercarlo e lo trovò disteso sul letto, sanguinante: a lui il pittore confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella al petto.
Paul Gachet, l’amico dottore che lo visitò, non riuscì a estrarre il proiettile e si limitò ad applicare una fasciatura. Van Gogh rifiutò di fornire spiegazioni (affermò soltanto “volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca”) ai gendarmi e a Theo che era subito accorso. I due fratelli trascorsero insieme tutto il lunedì 28 luglio in camera, fumando la pipa e chiacchierando. La sera Vincent ebbe un accesso di tosse, perse conoscenza e morì verso l’1.30 del 29 luglio: aveva 37 anni.
I funerali furono organizzati per martedì 30 luglio ma essendo il pittore un suicida, il parroco di Auvers-sur-Oise rifiutò di benedire la salma e vietò cerimonia e sepoltura: fu il sindaco della vicina città di Méry che permise funerale e inumazione. Van Gogh fu tumulato in una bara ricoperta dai girasoli che amava tanto, dalie e altri fiori gialli. Oltre al fratello giunsero da Parigi pochi amici intimi: Lucien Pissarro (figlio di Camille), Père Tanguy e, appunto, Émile Bernard.
Pochi mesi dopo anche Theo van Gogh venne ricoverato in una clinica parigina per malattie mentali. Fu in seguito trasferito a Utrecht dove morì il 25 gennaio 1891 sei mesi dopo Vincent, a soli 34 anni.
Da allora furono in molti a chiedersi quale fosse stata la malattia di Van Gogh e quanto avesse influito sulla sua produzione artistica. Oltre 150 psichiatri hanno formulato circa 30 diagnosi diverse, tra cui schizofrenia, disturbo bipolare, sifilide, avvelenamento da ingestione di vernici, epilessia del lobo temporale, porfiria acuta intermittente, con aggravanti come la malnutrizione, il lavoro eccessivo, l’insonnia e il consumo di alcol, di assenzio in particolare. Nel 1979 il medico giapponese Yasuda studiò le cartelle cliniche del pittore, giungendo alla conclusione che Van Gogh soffriva della sindrome di Menière, una patologia rara che colpisce l’orecchio interno e può provocare vertigini, la percezione di rumori acuti o fischi (acufene), la perdita dell’udito e la sensazione di pressione nell’orecchio. E le lettere dell’artista scritte tra il 1884 e la sua morte descrivono molto spesso gli attacchi di cui soffriva: vertigini disabilitanti, nausea, vomito, insofferenza al rumore, intolleranza al movimento, perdita dell’udito e iperacusia.
Sulla base di queste ricerche sono emersi alcuni studi sui motivi per cui Van Gogh si tagliò una parte dell’orecchio sinistro per poi spedirlo a una prostituta. Il suo atteggiamento suggerisce che l’acufene fosse diventato intollerabile. Pazienti con la sindrome di Menière hanno affermato che si sarebbero tagliati l’orecchio per cercare di alleviare il disturbo.
Gli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith pubblicarono nel 2011 una biografia su Van Gogh in cui ipotizzano che l’artista non si sia suicidato ma che – mentre dipingeva in un campo – sarebbe stato ferito da un colpo di rivoltella sparato accidentalmente da due ragazzi che si divertivano a tormentarlo giocando con una pistola. Van Gogh, profondamente depresso e forse consapevole dei guai che avrebbero incontrato i giovani, non confidò a nessuno questo fatto e anzi affermò di essersi sparato da solo. Questa teoria si rifarebbe ad alcune testimonianze risalenti agli anni Trenta del ventesimo secolo rilasciate dai fratelli René e Gaston Secretan, presunti responsabili della morte del pittore.
L’ipotesi non è mai stata favorevolmente accolta e gli storici del Van Gogh Museum di Amsterdam definiscono le conclusioni dei due biografi delle semplici illazioni su fatti già conosciuti ma interpretati in maniera errata.
Sicuramente se Van Gogh fosse stato curato correttamente avrebbe avuto una vita meno infelice anche se forse non avrebbe realizzato i suoi capolavori, senza diventare pertanto uno dei più importanti pittori al mondo. Del resto, da vivo non era stato che uno dei tanti che ci avevano provato, senza successo, e i suoi lavori erano poco conosciuti e ancor meno apprezzati. Non fosse stato per Émile Bernard, la sua amicizia e le mostre postume che organizzò.