Ismiraldha Abdullah aveva capito che sua madre era nei guai quando tornando a casa da scuola aveva trovato sua zia che singhiozzava, con in mano una lettera scritta in cinese. Era l’ottobre 2015 e la lettera diceva che sua madre, Siti Aslinda Binte Junaidi, era stata arrestata a Shenzhen, nel sud della Cina, accusata di traffico internazionale di droga. Rischiava la pena di morte.
Per Ismiraldha quel momento è uno shock. Non aveva la minima idea di cosa facesse sua madre in Cina, sapeva solo che da Singapore si era spostata in cerca di lavoro. Quasi cinque anni dopo, nel luglio di quest’anno, Aslinda, ora 35enne, e un altro singaporiano, Mohd Yusri Bin Mohd Yussof, 44 anni, sono stati giudicati colpevoli e condannati a morte. La condanna di Yusri è stata sospesa per due anni, il che significa che potrebbe essere commutata in ergastolo, mentre Aslinda - che si ritiene abbia avuto un ruolo attivo - rischia l’esecuzione se il suo ultimo appello non sarà accolto.
Da Singapore, la sua famiglia sta cercando disperatamente di salvarla attraverso i canali diplomatici, tentando di fare leva sul sistema giudiziario cinese, dove le assoluzioni sono assai rare. “È stato molto difficile trovare un avvocato pro bono in Cina, perché la famiglia non può permettersi di pagarne uno - ha commentato M. Ravi, un avvocato di Singapore che si è occupato del caso - ho cercato di mettermi in contatto con alcune reti internazionali e devo trovare sul posto un legale disposto a seguire il caso, ma al momento non sappiamo se faremo in tempo: la Cina potrebbe decidere di fucilarla da un momento all’altro”.
Secondo gli atti giudiziari, Aslinda e Yusri sono stati fermati dai funzionari della dogana di Shenzhen il 24 ottobre 2015. Una perquisizione delle loro valigie ha rivelato 28 borse da donna contenenti più di 11 kg di metanfetamina cucita nelle fodere. Sul mercato, una quantità che valeva più di 250mila euro. Entrambi hanno negato di sapere che trasportavano droga.
Aslinda ha raccontato alla corte che nel 2014, mentre cercava lavoro online, ha incontrato un uomo di nome Chibuzor Onwuka che le ha offerto grosse cifre per trasportare non meglio precisate “merci” dalla Cina alla Cambogia. Una o due volte al mese, Aslinda andava a prendere valigie preparate da qualcuno a Guangzhou e volava a Phnom Penh. La merce che trasportava era di solito lingerie femminile, o ancora borse e confezioni di toner per stampanti, e quando Aslinda aveva iniziato ad avere qualche dubbio, l’uomo le aveva spiegato che si trattava di oggetti altamente redditizi che venivano venduti sul mercato nero cinese.
Nel luglio 2015, Aslinda presentato Yusri all’uomo: Onwuka li pagava fra i 2.000 ai 3.000 dollari per ogni viaggio, occupandosi dei biglietti aerei e delle fatture degli alberghi. Quando furono arrestati, avevano fatto due viaggi insieme.
Al processo, il giudice ha respinto le argomentazioni di entrambi: non potevano non essere a conoscenza del reale contenuto dei loro carichi e comunque la cifra pattuita, decisamente alta, avrebbe dovuto metterli in allarme.
Sua figlia Ismiraldha, a Singapore, insiste: sua madre ha la fedina penale pulita e non ha mai commesso un crimine. “Devo ammettere che ha peccato di ingenuità: se fossi stata nei suoi panni non avrei mai accettato quel lavoro”.
Il caso di Aslinda è attualmente oggetto di ricorso presso l’Alta Corte del Guangdong: se il tribunale non commuterà la sentenza, la pena di morte potrebbe essere eseguita nel giro di poche settimane. “La legge cinese stabilisce che ogni criminale è uguale nell’applicazione della legge - ha riferito un portavoce - le autorità giudiziarie cinesi gestiscono i casi che coinvolgono criminali di diverse nazionalità in conformità con la nostra legge”.
Secondo un report di Amnesty International e della Fondazione Dui Hua, che sostiene i diritti dei detenuti, la Cina è il primo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Il Paese non divulga il numero totale di esecuzioni eseguite ogni anno, ma si ritiene siano migliaia, la maggior parte delle quali con fucilazione o iniezione letale.
Nel 2016, il governo nigeriano ha avuto notizia che 120 suoi cittadini si trovavano nel braccio della morte di diversi penitenziari cinesi, mentre nell’ultimo decennio persone provenienti da Uganda, Corea del Sud, Giappone e Kenya sono state condannate a morte per reati legati alla droga.
“Tutto dipende dal grado di persuasione diplomatica – aggiunge l’avvocato Ravi - Singapore è abbastanza vicina alla Cina: ho tentato di contattare il Ministero degli Affari Esteri ma non sono stati molto d’aiuto. Stiamo ancora aspettando di poter fissare un incontro”.
In passato, le autorità cinesi evitavano di infliggere la pena di morte a cittadini stranieri, in particolare di Paesi occidentali, ma a complicare il destino di Aslinda c’è un altro dettaglio: anche Singapore prevede la pena capitale nei casi di traffico di droga.