In Corea del Nord è il grande giorno del 75esimno anniversario della nascita del Partito dei lavoratori. Le immagini satellitari parlano di una superparata con 32mila soldati schierati e la probabile esibizione di nuove armi nucleari, la solita ostentazione della forza militare e devozione al leader supremo, Kim Yong-un, dato per morto o grave almeno quattro, cinque volte all’anno.
Ma non è tutto oro quel che luccica, nemmeno per il piccolo dittatore asiatico. Il 10 ottobre 2020 avrebbe dovuto essere la sua consacrazione definitiva, iniziata il 7 maggio del 2016, quando si era rivolto ai 25 milioni di nordcoreani lanciandosi in promesse assai coraggiose. In cinque anni, i mezzi di sussistenza di tutti i nordcoreani sarebbero notevolmente migliorati, la Corea del Nord sarebbe diventato un “Paese socialista altamente civilizzato” il cui popolo avrebbe goduto delle “condizioni e dell’ambiente migliore per condurre una esistenza agiata e altamente civilizzata”.
L’obiettivo era ambizioso, al limite dell’impossibile. All’epoca, la Corea del Nord era uno dei Paesi più poveri del mondo, costretto ad arrancare da sanzioni economiche che punivano l’ostinato desiderio di un programma nucleare. La visione economica delineata da Kim nel 2016, primo congresso del Partito dei Lavoratori dal 1980 - non era supportata da alcun dettaglio se non da un vago piano quinquennale che, alla luce dei fatti, in cinque anni non ha portato a cambiamenti politici e sociali degni di nota. Lo ha ammesso lo stesso Kim a metà agosto: il piano è fallito. Salvo poi addossare la colpa alle “sfide inaspettate e inevitabili sotto vari aspetti e alla situazione politica che circonda la penisola coreana”, hanno scritto i media di Stato senza specificare a quali sfide si riferisce.
Il programma nucleare della Nordcoreano è stato assai costoso a livello sociale, e ogni test atomico è stato visto dalla comunità internazionale come una provocazione che ha portato a risoluzioni sempre più punitive del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. All’inizio, si trattava di sanzioni che riguardavano per lo più le capacità di produrre armi, ma nel 2017 la comunità internazionale ha castigato i commerci con l’estero, nella speranza che le misure fossero sufficienti a soffocare l’economia al punto da costringere Kim al tavolo delle trattative.
Quando è arrivato il momento del suo discorso, nel gennaio 2018, Kim ha cambiato marcia: si è detto pronto ad abbracciare la via diplomatica e in soli sei mesi è passato da dittatore assoluto a statista pronto a incontrare senza timori i leader di Cina, Corea del Sud, Singapore e Stati Uniti.
Cosa esattamente abbia motivato Kim a fermare i test sulle armi e a uscire dall’isolamento è ancora oggetto di dibattito. L’amministrazione Trump sostiene che le sanzioni non hanno dato a Kim altra scelta se non quella di negoziare. E Kim, d’altra parte, aveva confermato che il suo Paese non aveva più bisogno di test sulle armi perché il programma nucleare era stato completato.
Ma il fallimento delle trattative con gli Stati Uniti, l’infuriare della pandemia e le sanzioni ancora in vigore, l’obiettivo di Kim di dare alla sua gente un’esistenza agiata stava fallendo miseramente.