Di Germano Longo
Bérénice non lo sa, ma senza il sangue del 13 novembre 2015, lei non ci sarebbe. Non ha colpe, anzi, è davvero il simbolo della vita che impone di andare avanti e dare un senso alle cose, per quanto ogni tanto il senso sia difficile trovarlo. Quella era la notte degli attentati di Parigi, la lunga scia di terrore seminata da sette terroristi dell’Isis che uno dopo l’altro colpiscono teatri, caffetterie e ristoranti seminando 137 morti e 368 feriti. Alle 21:48, tre di loro entrano nel teatro “Bataclan” di Boulevard Voltaire armati di AK47: aprono il fuoco sui 1.500 spettatori del concerto della band americana “Eagles of Death Metal”, lasciando a terra 90 persone. Fra di loro c’erano Renaud Le Guen, che a breve avrebbe dovuto sposare la sua Floriane, e Maud, da poco diventata la moglie di Johannes Baus.Floriane e Johannes quella notte perdono un pezzo del loro futuro, fanno i conti con il destino, costretti a rimettere in piedi le loro esistenze raccogliendone i pezzetti, fra i sensi di colpa di sentirsi vivi e la rabbia, perché morire fa parte della vita, ma così no. Non ha senso.
Floriane era riuscita a nascondersi in un buco sul retro del teatro: aveva perso di vista Renaud quasi subito, sperava fosse riuscito a uscire in strada. Tocca a suo padre, il giorno dopo, dirle che l'uomo della sua vita non c’è più: si conoscevano da quando avevano 16 anni, tre settimane dopo avrebbero dovuto sposarsi. Per Johannes è lo stesso: nell’inferno del Bataclan riesce a sdraiarsi dietro il bancone del bar e stringe i pugni, implorando che Maud abbia fatto lo stesso. Anche a lui dicono solo il giorno dopo che sua moglie è morta.

Floriane e Johannes si conoscono durante una delle tante occasioni che radunano i superstiti, fra interrogatori, commemorazioni e serate di terapie psicologiche di gruppo. Iniziano a sentirsi, parlano la stessa lingua di chi non sa bene che farsene delle giornate, svuotate di tutto. Hanno in comune la paura di uscire di casa e dei posti affollati, il terrore che scatena qualsiasi rumore improvviso, l’angoscia di aver toccato con mano la morte, che chissà perché quella sera li ha solo sfiorati.
Si sposano nel 2017, e pochi mesi dopo nasce Bérénice: neanche il nome è un caso, significa “colei che porta la vittoria”. E quella bimba una vittoria lo è davvero: “Sulla vita e su ciò che abbiamo vissuto. Siamo fragili, ma ogni passo ci rende un po’ più forti e resistenti”. Oggi vivono in un appartamento alla periferia di Parigi con una grande vetrata: ogni giorno entra il sole, e un po’ di speranza.