Di Germano Longo
Imola, 1° maggio 1994, Gran Premio di San Marino, terza prova del mondiale di F1: weekend nato male, malgrado un sole quasi estivo sull’Italia che aveva accompagnato la Festa del Lavoro e l’attesa per la gara. Il venerdì, durante le prove libere, Rubens Barrichello vola alla variante bassa, il giorno dopo Roland Ratzenberger muore sulla sua Simtek alla curva Villeneuve: il sabato la gara era stata sospesa per un incidente alla partenza fra JJ letho e Pedro Lamy. C’era qualcosa nell’aria, o forse è solo la suggestione di pensare al disegno perfetto di quell’imbuto chiamato destino che alle 14:17 di quel giorno si chiude sul nome di Ayrton Senna: al settimo giro, la sua Williams esce di pista alla curva del Tamburello a oltre 200 km/h. Il mondo trattiene il fiato, intorno alla monoposto del campione brasiliano arrivano medici, personale della pista, un elicottero: Senna è grave, lo si capisce quasi subito. Lo portano d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Bologna, ma è chiaro a tutti che non servirà a nulla: il braccetto della sospensione anteriore destro si era spezzato entrando nella visiera del casco, per conficcarsi sopra l’occhio. Ayrton si spegne ufficialmente alle 18:40, ma in realtà era morto qualche istante dopo lo schianto: i movimenti della testa che le telecamere inquadrano sono solo gli ultimi spasmi di nervi e muscoli, prima di spegnersi per sempre.Due giorni dopo il corpo di Senna vola su aereo presidenziale, fa scalo a Parigi e da lì verso San Paolo: la bara è sistemata in cabina, smontando i sedili necessari a farle posto. Lo aspetta il suo Brasile, in lutto da tre giorni.
Sono passati esattamente 25 anni, e su quel giorno si è detto tanto, dalle aule di tribunale in poi. Ma il nome di Ayrton Senna è rimasto intatto, piantato a forza fra le leggende dei motori e dell’unica consolazione possibile che resta a chi lo ha amato: muore giovane solo chi è caro agli dei.
Senna era un campione vero, ma fatto a modo suo: tre mondiali (1988, 1990, 1991), 65 pole position e 41 vittorie, tutte messe insieme con quel modo di fare disincantato, introverso, con l’aria malinconica di chi sembrava essere lì per puro caso. Un uomo di 34 anni, coraggioso in pista e timido e in imbarazzo quando toglieva casco e tuta. Il suo fascino era lì, non nella ricchezza e nella celebrità: nessuno lo ricorda aver mai fatto una battuta o un apprezzamento sulle statuarie bellezze che da sempre si aggirano nei box del circo festoso della F1. Si era sposato giovane, nel 1981, con Lilian Vasconcelos, ma avevano divorziato dopo pochi mesi. Aveva avuto donne, tutte bellissime, restandoci male quando Nelson Piquet aveva messo in giro la voce che fosse omosessuale: non era così, ma se anche lo fosse stato, Ayrton non ne avrebbe fatto un mistero. L’ultima storia d’amore con Adriane Galisteu, più giovane di 10 anni: un amore travolgente che non piace alla famiglia. Il giorno del funerale, il fratello e i genitori di Ayrton non la vogliono fra i suoi amici.
Quel giorno, l’ultimo, Senna era più pensieroso del solito: la morte di Ratzenberger, 34 anni come lui, lo aveva colpito profondamente. Nella riunione dei piloti propone di rinviare la gara, anche per rispetto di quel povero ragazzo austriaco che giace sul tavolo dell’obitorio: non gli danno retta, troppi sponsor, troppi soldi in ballo. Si corre.
È un cinismo prezzolato che ad Ayrton non piace: dentro la sua monoposto pretende la bandiera austriaca. Se vince la alzerà per Roland, racconta a tutti. Sid Watchins, il medico che fra i primi era arrivato alla curva del Tamburello, nella sua autobiografia ha scritto: “Ayrton ha fatto un profondo sospiro: il volto ea tranquillo, sembrava dormire. Ma ho avuto la sensazione netta che l’anima lo stesse lasciando”.