Di Germano Longo
Il calcio, la moda, il turismo, i trasporti, le comunicazioni, il food: non c’è settore in cui i cinesi non abbiano fatto la spesa a mani basse. Una colonizzazione silenziosa e implacabile che arriva ovunque si annidi un business, compreso il feudo europeo dell’auto. Proprio quello che un tempo era un giardinetto felice fatto di marchi che dialogavano, collaboravano e complottavano più di quanto si immagini, ma finiti uno dopo l’altro in debito d’ossigeno. Condizione ideale per attirare come le mosche i cinesi, che sfruttando la crisi, il bisogno di liquidità e accollandosi i debiti tornano a casa con pezzi prestigiosi ripiegati in valigia.L’automobile europea è ormai un terreno di conquista sconfinato e senza ostacoli: basta sventolare denaro per scalare brand un tempo inaccessibili, blindati e perfino un po’ schizzinosi. La Gran Bretagna è forse il paese che ha pagato la colonizzazione più pesante: Land Rover e Jaguar finite nelle mani degli indiani di “Tata”, “Lotus” in quelle dei cinesi di “Geely”, e se a queste si aggiungono Bentley annessa nei confini Volkswagen e Rolls-Royce e Mini in quelli BMW, non è che resti molto a chi cerca un po’ di campanilismo anglosassone.
L’ultimo in ordine di tempo, l’affare del secolo, quello che dovrebbe portare il controllo di Fiat nelle mani cinesi. Esperienze che di recente hanno vissuto in Germania, con la quota del 9,7% di “Daimler AG” slittata ai cinesi del “Geely Group” a fronte di un bonifico di 7,5 miliardi di euro, e ancora prima in Francia, con la Peugeot che dopo 204 anni di reggenza familiare ha ceduto a malincuore il 14% al gruppo “Dongfeng”.
Ma questi sono esempi eclatanti, difficili da far passare in silenzio, perché in realtà quelli che stringono alleanze con i cinesi sono molti, molti di più. Spesso inizia tutto con piccole percentuali azionarie, ma sufficienti per mettere al sicuro la solida presa della repubblica popolare. Certo, scorrendo l’elenco viene da chiedersi: se anche loro fanno automobili, perché non provano a venderle? Semplice: quasi nessun marchio riesce a superare gli stringenti parametri di sicurezza ed emissioni che l’Europa pretende. E a chi si chiede come fanno dalle loro parti, basta forse un dato: più di 260mila morti all’anno in incidenti stradali, primo paese al mondo per numero di vittime.
Insomma, hanno fretta di conquistare e dispongono di liquidità enormi, ma gli manca il know-how: mettete tutto insieme, mescolate e avrete il motivo per cui è più facile comprare che inventare.
Brilliance
Duecentomila veicoli all’anno e 9.000 dipendenti, nel 2003 stringe un’alleanza tecnologia con BMW e uno industriale con Toyota, più una recente joint-venture con Renault per realizzare veicoli commerciali leggeri destinati al mercato cinese. Malgrado una distribuzione che copre oltre 100 paesi, è risultato vano il tentativo di piazzare una berlina e una coupé sui mercati americani ed europei, penalizzate da imbarazzanti risultati nei crash-test.
Chery Automobile
È forse il marchio cinese più conosciuto da queste parti, dove attraverso la nostrana “DR Motor” ha tentato di spacciare vetture orientali come frutto dell’artigianalità italiana. A dare la notorietà al marchio ci aveva pensato anche il clamoroso plagio della “Daewoo Matiz”. Nel 2007 ha fondato il brand “Qoros” con la “Israel Corporation”, lavorando a piani di espansione che stanno prendendo forma grazie all’intervento di progettisti come Bertone e Pininfarina.
DongFeng Motor Corporation
Nel giugno del 2010, si presenta in Italia con un comunicato che suona come una dichiarazione di guerra: “Dong Feng Motors sbarca in Italia per sfidare la Fiat”. L’attacco salta proprio all’ultimo istante, ma forse è solo una questione di tempo, visto che il colosso vanta 3,m5 milioni di veicoli all’anno e collaborazioni importanti con Peugeot-Citroën, Honda, Kia, Nissan, Mitsubishi e Renault.
FAW
Sono le iniziali di “Fist Automobile Works”, colosso che sforna un milione fra auto e camion attraverso 10 diversi marchi riservati al mercato interno. Nel 1991 ha stretto un accordo con il gruppo Volkswagen, seguito nel 2003 da un altro con Toyota e nel 2009 con General Motors. Fondato nel 1953 con la partecipazione dell’Unione Sovietica, è uno dei più antichi costruttori cinesi, di proprietà statale.
Geely Automobile
Balza agli onori delle cronache nel 2009, quando sborsa 1,8 miliardi di dollari in contanti al gruppo Ford per acquisire il controllo di Volvo. È un colpo clamoroso che accende i riflettori su un colosso con 12 impianti produttivi e oltre 30mila dipendenti che nel 2017 punta al raddoppio, con un’operazione che a fronte di una spesa di 65 milioni di dollari rileva il 51% del marchio inglese “Lotus” dai malesi della “DRB-Hicom”. Lo scorso 23 febbraio, l’ennesimo colpo di scena: l’acquisizione del 9,69% di “Daimler AG” per 7,3 miliardi di dollari: quando basta per diventarne il maggior azionista.
Great Wall Motors
Oltre 60 i paesi in cui vende i propri veicoli, concentrati soprattutto fra quelli in via di sviluppo, è finita nell’occhio del ciclone per copie fotostatiche di modelli come la “Peri”, scopiazzatura che mescola due modelli esistenti, Fiat Panda e Nissan Note. Nel 2010, in vista dell’invasione europea, ha acquisito le linee di produzione della “Litex Motors”, in Bulgaria. Quotata in borsa ad Hong Kong e fondata nel 1984 dal miliardario Wei Jian Jun, produce soprattutto suv e pick-up, e di recente l’Australia ha avviato un’inchiesta giudiziaria per via di alcuni componenti in amianto individuati su alcuni modelli.
Saic Motor
Acronimo di “Shanghai Automotive Industry Corporation” e silenziosa partner di General Motors, Volkswagen, CNH Industrial Iveco e New Holland. Un colosso che vanta 11.683 miliardi di azioni, con 6,93 milioni di automobili vendute nel 2017 e 113.86 miliardi di fatturato annuo. Eppure, non esattamente un re mida dell’auto, come dimostrato dall’esperienza della “SsangYong”, finita in amministrazione controllata e poi ceduta per la disperazione agli indiani di “Mahindra & Mahindra”. Nel 2007, ha acquisito la “Roewe”, parente alla lontana di quel che resta della “Rover”.