di VICE
L’agghiiacciante storia di Ted Bundy, il più prolifico serial killer statunitense, da cui - appunto - nasce il termine serial killer, uccisore seriale, è diventata un film con la regia di Joe Berlinger che in queste ore debutta anche nelle sale italiane dopo il successo ottenuto in Usa e nel resto d'Europa. Bundy, alla fine fu giustiziato (morì in Florida sulla sedia elettrica nell'89) per un numero di delitti assai inferiore a quelli presunti, da trenta a settanta. Le vittime erano giovani donne picchiate, seviziate, stuprate, uccise e diventate oggetto di atti sessuali anche dopo la morte, nei “cimiteri” dove questo mostro dall’aria gentile nascondeva i corpi in un periodo compreso fra ill 1974 e il 1978 in Colorado, Utah, Washington e Florida.
Il regista non ha voluto concentrare la macchina da presa sulle scene violente. Anzi. Le orribili morti della sue vittime rimangono vaghe e sullo sfondo. L’idea-base è di spiegare chi è Bundy, prigioniero della sua doppia vita, premuroso fidanzato o amico, raccontato attraverso la lunga ricostruzione di una delle compagne d’allora, l’ultima in ordine di tempo. Ma anche i racconti delle precedenti fidanzate non si discostano dalla testimonianza di Elizabeth Kloepfer, innamorata sì ma un certo punto consapevole del mondo fatto di bugie e di ombre di Bundy, molto simile alla rete di un ragno, Il bel Ted l’aveva sottomessa e stregata. Non lo seguì nella sua sfrontata difesa, che lo spinse, nel processo finale a rinnegare gli avvocati che avevano tentato di farlo passare per matto, o mezzo matto, per evitargli la pena capitale, sostenendo di essere innocente, nonostante montagne di prove.
Ted nasce in una strana famiglia, dove tra madre e sorelle, viene allevato da più figure femminili, e solo già grande scoprirà chi era la sua vera madre. E' un ragazzo affascinante, di bell’aspetto. Frequenta psicologia all’università, fa persino il centralinista in un call center che cerca di combattere i suicidi. Poi è il brillante staffista di un candidato repubblicano in California e medita pure lui di darsi alla politica. In California conosce una ragazza madre e con lei vive alcuni anni, dove alterna delitti e perversioni e un’esistenza piccolo-borghese tra pic nic, lavori saltuari e progetti finiti nel nulla.
Elizabeth lo conosce un giorno qualsiasi in un bar, davanti al juke box, anche lei ragazza separata con figlia a carico. Racconti di scene quotidiane: lui che cucina, lava i piatti, si dedica alla figlia di lei, come era già avvenuto con l’altra donna. Dice di essere prossimo a laurearsi in legge. Intanto i notiziari tv raccontano periodicamente storie di donne uccise e mutilate. Lei si preoccupa, teme che il mostro se la prenda anche anche con lei. Ma lui la rassicura: “A te non succederà”, le dice sibillino.
Gli andrà bene ancora per un po’. Ma un giorno un poliziotto ferma per caso il suo maggiolino beige, tutto scassato. A bordo corde, guanti, catene. Bastano pochi minuti e tutto collima con l’identilkit del serial killer, descritto con cura da una delle sue poche vittime che sono riuscite a sfuggirgli. Arrestato, riesce per due volte ad evadere ma lo riprendono ogni volta. Poi il processo, uno degli eventi mediatici da sempre più seguiti negli Usa.
Ted Bundy, interpretato da Zac Efron, attore amato dalle teen ager di mezzo mondo, ci assomiglia pure. Ed è credibile quando rappresenta Bundy nel momento finale della sua parabola, mentre tenta di sostenere un’innocenza impossibile, in nome di cosa non si capisce. Forse una beffarda sfida allo Stato e al sistema, un tentativo che voleva dimostrare quanto fosse paranoico, malato. Ma giudici della Florida fecero in fretta a decidere: pena di morte. E amen.