Di Germano Longo
Quarant’anni di carriera, 33 album venduti in 120 milioni di copie in tutto il mondo, 20 Grammy, un Oscar, un Tony Award e il Kennedy Center Honor per il contributo dato alla diffusione della cultura americana. L’esistenza di Bruce Springsteen, “The Boss”, parla da sola: è già leggenda. Lui è un figlio del New Jersey e dell’America operaia della middle class, quella poco autorizzata a sognare: Douglas, il padre, cambia mestiere con la stessa velocità con cui li perde, mentre mamma Adele, sangue italiano, si tiene stretto quello di segretaria. La vita di Bruce, dice la leggenda, cambia del tutto una sera del settembre 1955, quando all’Ed Sullivan Show, in tv, vede per la prima volta Elvis Presley e capisce in quel momento che la musica è quel che conta, e conterà sempre. Nel 1975 esce “Born tu Run”, l’ossatura della scena rock per gli anni a venire, e un successo che supera in fretta i confini nebbiosi del New Jersey per arrivare ovunque.Bruce diventa uno dei simboli dell’America, paese immenso che da allora dipinge in ballad malinconiche e dolenti, alternate a brani che sprizzano energia. Ma è il suo personaggio, da perfetto antidivo, a completare la celebrità: niente gossip, niente paradisi sintetici, nessuna esagerazione o sbruffonate da vaccaro arricchito. Nel 1991 sposa Patty Scialfa, corista della sua “E Street Band” e con lei mette al mondo tre figli: un solo tentennamento, quando in crisi con Patty, Bruce sposa la modella Julianne Phillips, da cui divorzia poco tempo dopo per tornare a casa.
Da pochi mesi, alla discografia di Bruce si è aggiunto l’ennesimo capitolo: “Western Stars”, nuovo lavoro, arrivato a cinque anni di distanza da “High Hopes”. Ancora una volta, un potente e profondo ritratto dell’America, ma con i riflettori puntati verso la West Coast, con le lezioni di Steinbeck, Ferlinghetti e Kerouac in prima fila: 13 tracce che raccontano di stunt-man, di cow-boy e di altri uomini, tutti perdenti, smarriti, vecchi e sfiancati dalla vita, pennellati con una sapienza di testi che toccano le maglie delle emozioni e melodie che restano impigliate all’anima di tutti, anche di chi non è nato in America ma in qualche modo ne è figlio, anche solo per meriti televisivi e cinematografici.
A 70 anni, di fronte al suo Paese che sembra sempre più diviso da politiche ottuse e cattiverie ad ammorbare l’aria, Bruce si toglie lo sfizio di provare a ricompattare un popolo smarrito con la musica. Ma lo fa inventandosi regista, per trasferire i paesaggi e gli ideali di “Western Stars” su pellicola. Il suo è un docu-film girato con la collaborazione di Thom Zimny: un’ode all’Ovest, la terra dei pionieri e dei sognatori, con il contrappunto delle 13 tracce del suo album, forse uno dei più intensi della sua carriera infinita. Ottantatré minuti che scorrono veloci, alternando Bruce dal vivo, mentre suona con la sua band, la moglie Patty e un’orchestra di 30 elementi nel fienile di “Colts Neck”, la sua residenza nel New Jersey, ma che passano anche dal parco “Joshua Tree”, con immagini private e inquadrature suggestive piene di luci e ombre della California. La culla di quel sogno americano oggi un po’ ammaccato, ma ancora pieno di speranze.