Quando è stato identificato come il serial killer di Hwaseong, Lee Chung-jae era in galera per lo stupro e l’omicidio della cognata del 1994. Si chiudeva così, dopo decenni di dubbi, magre figure della polizia e clamorosi errori giudiziari, uno dei casi di cronaca più seguiti di sempre in Corea del Sud: 9 stupri e 14 omicidi di donne e ragazze di età compresa fra 13 e 71 anni avvenuti nella provincia rurale di Hwaseong tra il 1986 ed il 1991 e rimasti senza colpevole. Le colpe erano cadute su un Yoon (il nome completo non è stato divulgato per la legge sulla privacy sudcoreana), innocente finito in galera per 20 anni e rilasciato nel 2008, a cui il tribunale ha concesso un processo di revisione dopo che lo scorso luglio, il capo della polizia provinciale di Gyeonggi, Nambu, Bae Yong-ju, ha ammesso che durante le indagini del 1989, la polizia ha arrestato Yoon costringendolo a firmare una falsa confessione.
Il caso era diventato addirittura un film, “Memories of Murder”, diretto nel 2003 da Bong Joon Ho, il regista di “Parasite”, e per risolverlo è stato necessario attendere l’avvento delle più recenti tecnologie, che hanno permesso di rilevare la presenza costante del Dna dell’omicida, che non era Yoon. Ma i colpi di scena non erano comunque finiti: Lee Chung-jae nega qualsiasi coinvolgimento, e in più ha dalla sua i termini di prescrizione, che in Corea del Sud anche per l’omicidio hanno un limite di 15 anni. Ma la polizia, travolta da uno scandalo e da accuse di inefficienza, ha scelto ugualmente di riaprire il caso.
Ieri, in tribunale, deponendo al processo di Yoon, Lee Chun-jae ha ammesso di aver ucciso 14 donne, dicendosi sorpreso che il caso non fosse stato risolto molto prima di quanto si aspettasse. “Non pensavo che i miei crimini sarebbero rimasti sepolti così tanto tempo”, ha ammesso parlando per la prima volta in pubblico degli omicidi.
La deposizione di Lee Chun-jae è velata di tagliente ironia e getta benzina sul fuoco delle polemiche di inefficienza che ancora orbitano intorno all’operato della polizia. “Quando sono stato interrogato avevo al polso l’orologio di una delle vittime, ma nessuno se n’è accorto e sono stato rilasciato poco dopo. Ancora non capisco perché non sono mai stato fra i sospettati: non ho mai cercato di nascondere le prove, pensando che mi avrebbero individuato facilmente, invece decine di detective continuavano a interrogarmi chiedendomi se conoscevo altre persone su cui nutrivano sospetti”.
Freddo e cinico, Lee ha ammesso che non c’era alcun motivo per uccidere la sua vittima più giovane, una tredicenne, e non ha mostrato alcuna emozione quando ha descritto le brutali modalità dell’omicidio: “È stato un atto impulsivo. So che molte persone sono state indagate e hanno sofferto ingiustamente: vorrei scusarmi con tutti e con le famiglie delle vittime. Ho accettato di testimoniare nella speranza che chi ha tanto sofferto possa trovare un po’ di conforto sentendo la verità. Vivrò il resto della mia vita pentendomi di quello che ho fatto”.
All’epoca degli omicidi, Hwaseong era una zona di campagna che ospitava circa 226.000 persone sparse in diversi villaggi, e i crimini violenti erano assai insoliti.