Meno di una settimana fa, il Pentagono rivelava che a bordo della USS Theodore Roosevelt, portaerei in navigazione verso il Giappone, erano esplosi i contagi di coronavirus. Nel giro di poche ore, dai primi tre casi accertati si era passati a 25, facendo temere il peggio. Seguivano comunicati rassicuranti e la conferma che l’operatività bellica l’enorme portaerei non sarebbe stata minimamente intaccata.
Ma la situazione è precipitata in fretta: in una lettera inviata ai vertici militari e diffusa dal “San Francisco Chronicle”, il comandante Brett Crozier ha chiesto un intervento d’urgenza prima che la situazione collassi in modo irreparabile. I contagiati a bordo hanno raggiunto la preoccupante cifra di 4.000 casi, la quasi totalità, considerando che l’equipaggio è formato da 5.680 militari, 3.200 marinai e 2.480 piloti. “Il virus, considerati gli spazi ridotti della nave, si diffonde velocemente e non è possibile ai marinai rispettare l’isolamento - ha scritto Crozier – ma non siamo in guerra, e i miei marinai non devono morire. Se non interveniamo ora, non salveremo l’asset più prezioso del nostro Paese: i nostri militari”.
Da quanto si apprende, solo una minima parte del personale d bordo ha potuto lasciare la nave sbarcando nel porto di Guam, “ma la malattia si diffonde e accelera: servono spazi adeguati alla quarantena il più presto possibile. Rimuovere la maggior parte degli uomini da una portaerei nucleare e isolarli per due settimane può sembrare una misura straordinari, ma è un rischio necessario: tenerli a bordo viola il rapporto di fiducia che i militari ripongono verso il loro Paese, e significa condannarli a morte”. A rispondere al drammatico appello è stato il segretario alla marina Thomas Modly, che ha spiegato di essere al lavoro per trasferire i marinari in strutture a Guam, “ma è difficile trovare strutture con posti letto sufficienti. Coscienti dell’urgenza, stiamo studiando soluzioni alternative”.