Di Marco Belletti
E così COVID-19 sta rallentando, se non addirittura fermando, il mondo. Almeno per il momento non siamo in grado di prevedere come evolverà la diffusione del coronavirus e ogni tentativo di immaginare la futura curva dei contagi è per ora vano.In un’intervista a Business Insider Italia, Carlo La Vecchia – professore di statistica medica ed epidemiologia dell’Università degli studi di Milano La Statale – ha affermato che questa epidemia è troppo nuova e ancora non è possibile ipotizzare nient’altro se non che per qualche settimana la situazione peggiorerà costantemente.
In questa prima fase dell’epidemia, in mancanza di dati sufficienti, i ricercatori si affidano a metodi matematici basati su equazioni statistiche, rimanendo quindi nello scenario delle probabilità e non delle certezze. Per capire come si evolverà l’epidemia è necessario tenere conto della sua infettività (cioè quante persone può contagiare un unico malato) oltre che dei tempi di incubazione, del periodo di asintomaticità, della reale durata della patologia.
Al momento in Cina si assiste a un forte calo delle infezioni, che può essere stato provocato da una diffusa immunità di gregge, ma purtroppo non è ancora possibile conoscere il numero di persone che hanno contratto il virus senza poi manifestare sintomi.
Difficile fare previsioni, dunque, come è difficile al momento capire perché la nostra nazione è stata colpita tanto duramente, addirittura molto più della Cina: i 18 mila casi (al 13 marzo) su una popolazione di 60 milioni sono in proporzione di più degli 81 mila colpiti sui quasi 1,4 miliardi di cinesi.
Di certo c’è che il motivo principale per cui COVID-19 si è diffusa molto rapidamente diventando in poche settimane una pandemia, è la sua combinazione tra elevata infettività e relativamente bassa mortalità. Quasi tutti i malati sono stati in grado di andare in giro a trasmetterla prima di finire in ospedale o in quarantena. Le influenze precedenti avevano caratteristiche differenti: la MERS (ancora presente in aree circoscritte del pianeta) è immediatamente invalidante e chi la contrae non ha il tempo di diffonderla; anche la SARS (con una mortalità del 10 per cento) fa stare immediatamente male e così i contagiati sono isolati e non possono trasmetterla.
A questo punto il resto del mondo deve guardare che cosa succede in Italia e prepararsi così in anticipo alle prossime mosse da fare come, per esempio, prevedere respiratori o disporre di personale sanitario adeguato: questa possibilità fa la differenza. Al momento la mortalità nelle altre nazioni è più bassa che in Italia – anche di 10-12 volte – e quindi i medici sono in grado di intervenire meglio.
La ricerca su COVID-19 non prosegue solamente nel campo medico: infatti, mentre di questo virus si conosce ancora poco e la sua sconfitta è relativamente distante, un gruppo di studiosi della Australian National University ha stimato che la pandemia potrebbe avere gravi conseguenze sul prodotto interno lordo mondiale. I modelli statistici realizzati prendono in considerazione sette scenari sul modo in cui l’epidemia potrebbe influenzare la ricchezza mondiale.
Il primo modello, quello con il minor impatto sull’economia globale, prevede che la malattia possa provocare 2.400 miliardi di dollari di perdite del prodotto interno lordo mondiale, con circa 15 milioni di morti. Queste stime sono state realizzate basandosi sulla pandemia influenzale di Hong Kong del 1968 (da noi conosciuta anche come “spaziale”) che si stima abbia ucciso un milione di persone.
Il modello più drammatico è invece stato plasmato sulla pandemia di influenza “spagnola” che si stima abbia ucciso nel triennio 1918-20 tra i 50 e i 100 milioni di persone. Secondo i professori australiani, in questo caso il PIL globale potrebbe perdere fino a 9 mila miliardi di dollari con un bilancio di circa 70 milioni di vittime.
Ma anche nella migliore delle ipotesi la ricaduta negativa su tutta l’economia del pianeta sarebbe enorme e gli stati dovranno per forza di cose collaborare per limitare i danni e investire molto più di oggi nella salute pubblica e nel rapido sviluppo delle nazioni più povere.
I dati emersi dalla ricerca dell’università australiana devono essere giunti alle orecchie del presidente degli Stati Uniti Donald Trump visto che, parlando alla nazione, ha affermato con la sua consueta retorica che la pandemia è il nuovo Isis da combattere e vincere, meno di 48 ore dopo aver rifiutato di effettuare il tampone dichiarando che il virus era solo una normale influenza. Appare ormai chiara la sua strategia elettorale: nazionalismo estremo, invitando la popolazione a combattere un nemico esogeno da eliminare al più presto e con ogni metodo, facendo così dimenticare i problemi interni.
Ormai i governi di tutto il mondo conoscono il suo modus operandi, ma in ogni caso la comunità internazionale è stata colta in contropiede dalla decisione di Trump di bloccare per 30 giorni i collegamenti aerei con le nazioni dell’Unione europea. Sembra che per prendere questa decisione al presidente siano bastate poche ore e che non abbia sentito la necessità di condividerla né tantomeno anticiparla a nessuno.
Sempre secondo Business Insider, che riporta fonti Bloomberg, non si tratta di una mossa azzardata presa in un momento emotivamente particolare, né decisa per il bene supremo della nazione. Sembrerebbe che la scelta sia motivata dalla necessità di aiutare la Boeing che si trova in una situazione di estrema difficoltà e ha deciso di incassare immediatamente il prestito emergenziale di 7,5 miliardi di dollari previsto per il risanamento dell’azienda, dopo avere riacquistato i propri titoli per oltre 100 miliardi di dollari negli ultimi anni.
Quindi questo impegno forzato su COVID-19 di Trump potrebbe essere un trucco per distrarre l’attenzione da Boeing il cui comportamento fa credere agli analisti di Bloomberg che i manager del costruttore statunitense ritengano che a breve l’economia debba vivere un nuovo caso Lehman Brothers.
E a confermare questa opinione, Bloomberg mette in evidenza come le Corporation statunitensi abbiano annunciato buyback azionari per soli (si fa per dire) 122 miliardi di dollari, pari a un calo su base annua del 46 per cento, il peggior risultato dal 2009.
Il tutto con buona pace degli elettori statunitensi.