Di Marco Belletti
Il minimo comune denominatore di Giusto Dalla Pozza (morto a 83 anni il 4 novembre 1995 a Este), Mario Fogli (morto a 52 anni il 2 agosto 1998 a Broni) e Angelo Porrello (morto a 53 anni il 5 ottobre 1999 a Bascapè) si chiama Milena Quaglini, la donna che li ha uccisi tutti tre.Nata nel 1957 nei pressi di Broni (Pavia) a 19 anni, appena diplomata, Milena scappa dalla famiglia e da un padre violento, ossessivo e geloso, vivendo tra Lodi e Como dove lavora irregolarmente come cassiera, badante e donna delle pulizie. Conosce un uomo, lo sposa, si stabilisce definitivamente con lui a Como e ha un figlio, Dario.
In carcere, anni dopo, Milena descriverà il periodo del suo primo matrimonio come il più bello e felice della sua vita, ma purtroppo il marito muore improvvisamente per un diabete fulminante, la donna cade in depressione e inizia a bere. Torna a non avere una fissa dimora svolgendo lavori saltuari e, a Pavia, conosce Mario Fogli. Si tratta di un camionista alcolizzato, violento, militante della Lega Nord di una decina d’anni più vecchio di lei, con il quale si sposa: insieme vanno a vivere a Broni e hanno due figlie.
Il rapporto con Fogli è un incubo per Milena. Il marito la obbliga a non lavorare, maltratta Dario (il figlio di primo letto della donna) umiliandolo appena possibile. Il rapporto tra i due coniugi precipita quando fallisce la precaria attività in cui l’uomo si è lanciato – senza che Milena lo sapesse – e un ufficiale giudiziario pignora gran parte dei beni della coppia. La donna ricomincia a bere e tenta di guadagnare qualche soldo grazie alla passione per la pittura: nature morte, paesaggi e soggetti politici, in quanto nel frattempo anche Milena è diventata attivista della Lega Nord.
Ma la situazione è insostenibile, la donna chiede la separazione e si trasferisce in Veneto con una delle due figlie. Nel 1995 trova lavoro come portinaia in una palestra e arrotonda i guadagni svolgendo l’attività di collaboratrice domestica. Conosce in questo modo Giusto Dalla Pozza, pensionato di Este (in provincia di Padova) che fa fruttare i suoi risparmi facendo l’usuraio. Presta a Milena quattro milioni di lire per poi chiedere la restituzione del debito a 500 mila lire al mese oppure con prestazioni sessuali.
Quando l’uomo cerca violentarla, Milena afferra una lampada e gliela rompe in testa, scappa ma poi torna nell’appartamento e chiama la polizia, affermando di aver trovato l’uomo a terra di fianco al letto, in un lago di sangue. L’indagine degli inquirenti stabilisce che le fratture nel cranio di Dalla Pozza sono compatibili con una caduta e il caso è archiviato come morte accidentale.
Milena Quaglini decide di tornare dal marito a Broni, per evitare che le due figlie ancora bambine vivano separate e per stare vicino anche al primogenito, ormai maggiorenne. Ma neppure questo secondo tentativo ha successo: Fogli la umilia e la maltratta e la donna sempre più depressa beve alcolici associandoli a farmaci. Dopo uno dei consueti litigi, domenica 2 agosto 1998 la donna, completamente ubriaca, mette le figlie a letto, attende che anche il marito si addormenti quindi – dopo avergli fatto perdere i sensi con il “solito” colpo di lampada in testa – lo incapretta con la corda di una tapparella. L’uomo si risveglia, lei lo colpisce nuovamente e lo strangola definitivamente. Milena avvolge il cadavere in un tappeto che sposta sul balcone. Quando il mattino dopo le due figlie si svegliano racconta che il loro padre se n’è andato. Nel pomeriggio la donna telefona ai Carabinieri confessando l’omicidio. Quando gli agenti arrivano nell’appartamento, trovano la Quaglini che piange in cucina, Fogli morto arrotolato nel tappeto sul balcone e le figlie che giocano con le bambole in salotto.
Nel 1999 le bambine sono affidate alla zia materna e Milena è condannata a 14 anni di reclusione per uxoricidio. In appello ottiene la seminfermità mentale e la condanna è ridotta a 6 anni e 8 mesi da trascorrere agli arresti domiciliari. Nel frattempo, ha tentato due volte il suicidio ed è sempre più dipendente dall’alcol, per cui il tribunale dispone che debba essere ospitata in una comunità religiosa, per disintossicarsi. Poche settimane e viene trasferita in una clinica dove conosce un ex carabiniere che le offre ospitalità ma che prova ad abusare di lei, per cui la donna se ne va. Trova un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari grazie a un annuncio in cui un “53enne divorziato dinamico e longilineo, casa propria, cerca compagnia piacevole, al massimo quarantenne, per amicizia-convivenza”.
Si tratta di Angelo Porello, scarcerato da poco dopo aver scontato 6 anni di prigione per abusi nei confronti delle tre figlie: l’appartamento dell’uomo è a Bascapè, un comune del nordest pavese dove il 27 ottobre 1962 era precipitato l’aereo su cui viaggiava Enrico Mattei, il presidente dell’ENI.
La notte del 5 ottobre 1999 Milena viene fermata dalla polizia a bordo della Fiat Regata di Porello, con la patente contraffatta (essendo ai domiciliari non potrebbe uscire la notte) ma viene riconosciuta, denunciata e rilasciata. Il giorno dopo la donna denuncia la scomparsa del convivente e il 7 ottobre viene arrestata con la revoca dei domiciliari in quanto nuovamente fermata fuori casa senza permesso.
Rinchiusa nel carcere femminile di Vigevano, Milena Quaglini scrive lettere a Porello, nelle quali prova a far credere che i loro rapporti sono formali e che non si vedono da tempo. Tuttavia, i sopralluoghi degli inquirenti nella casa dell’uomo mettono in evidenza il contrario, con pastiglie di Halcion (il medicinale utilizzato da Milena per la sua insonnia) e capelli della donna nel letto. L’avvocato di Milena la consiglia di ammettere le sue colpe e lei i primi di novembre confessa tutto, anche i precedenti omicidi. Per quanto riguarda Porello, afferma che il 5 ottobre l’uomo la violenta e lei per vendicarsi gli fa bere una dose letale del suo sonnifero e la notte lo getta nella concimaia: i carabinieri ritrovano il corpo sepolto dal letame e mangiato dai vermi.
Tra il 2000 e il 2001 si celebrano i processi a carico di Milena Quaglini che, in carcere, ricomincia a dipingere. Una perizia psichiatrica sembrerebbe inchiodarla alle sue responsabilità, in quanto afferma che la donna “presenta un disturbo del carattere di tipo isterico” con una “personalità psicopatica” ma che “era perfettamente consapevole del fatto che stava uccidendo un uomo e lo ha fatto con una freddezza e una lucidità implacabili, senza alcun ripensamento o esitazione”.
Milena Quaglini non attende la sentenza definitiva, prevista per la fine di ottobre 2001 e una notte di due settimane prima lacera un lenzuolo, lo appende all’armadio e si impicca.
Dopo la sua morte gli inquirenti indagano su morti misteriose avvenute in altre zone dove Milena ha vissuto, ma non emergono prove concrete che le sue vittime siano più delle tre per cui stava per essere condannata.