ALBERTO C. FERRO
Non è solo la prova del DNA ad inchiodare Massimo rossetti alle sue responsabilità per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio. Gli investigatori hanno ricostruito, attimo dopo attimo, come e quando il muratore ha rapito, ucciso e infine abbandonato la bambina morente nel campo di Chignolo, lasciando poi che il freddo completasse l’opera omicida. Le hanno riassunte i giudici della Suprema Corte di Cassazione, nelle motivazioni della sentenza che ha confermato la condanna all’ergastolo.“…Dopo aver prelevato la ragazza e averla stordita, l’ha trasportata nel campo di Chignolo d’Isola e i tempi del prelevamento della vittima, del suo trasbordo sul campo di Chignolo e del ritorno a casa dell’imputato sono stati giudicati compatibili con il rilevato orario di rientro a casa alle ore 20-20,15, come si desume dalle dichiarazioni del coniuge”. Niente di inedito, ma fa effetto lo stesso rileggere le 234 pagine del documento. “Bossetti è passato e ripassato davanti alla palestra del centro sportivo proprio in perfetta coincidenza con l’uscita della ragazza. L’assenza di alibi, si coordina perfettamente con gli elementi indiziari emersi costituiti dalla compatibilità con l’orario di ritorno a casa di Massimo Giuseppe Bossetti e il tempo necessario per eseguire l’aggressione e commettere l’omicidio nel campo di Chignolo.”
Era il 26 novembre del 2010. Alle 18.44, la ragazza uscì dalla palestra (era una promessa della ginnastica ritmica) per tornare a casa. Appena 700 metri. Alle 18.49 il suo telefonino aggancia la cella di Mapello, a tre chilometri da Brembate, poi il segnale scompare definitivamente. Tre mesi dopo Il corpo viene ritrovato in un prato a Chignolo d’Isola, distante 10 chilometri circa da Brembate di Sopra. L’assassino ha infierito sul suo corpo con una spranga, sull’addome e sulle braccia. Con un sasso le spaccò la testa. Voleva essere sicuro che fosse morta e la trafisse con sei coltellate, inferte con un’arma dalla lama corta, affilata e larga. Nessuno dei fendenti aveva leso gli organi vitali. Morì, sola, nel gelo di quella notte infernale, tra le stoppie annerite e la brina. L’assassino non l’ha violentò.
Il 16 giugno 2014 i carabinieri arrestano nel cantiere dove lavorava, Massimo Giuseppe Bossetti, muratore incensurato allora di 44 anni. Il suo Dna si sovrappone con il profilo genetico di “Ignoto 1“, prelevato dalli slip di Yara. “L’evidenza scientifica, frutto di numerose e varie analisi biologiche effettuate da diversi laboratori, ha valore di prova piena. La probabilità di individuare un altro soggetto con lo stesso profilo genotipico equivale a un soggetto ogni 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di individui”. Tra gli indizi, “la presenza di calce nelle lesioni rilevate sul corpo della vittima, dovuta all’arma da taglio sporca di calce; la presenza il pomeriggio della scomparsa di Yara, in località prossima al Centro sportivo, con il telefono spento e a bordo del suo autocarro, mentre egli mai era stato in grado o aveva voluto riferire alla moglie, ai cognati e agli altri familiari cosa avesse fatto quel pomeriggio e quella sera. Bossetti è passato e ripassato davanti alla palestra del centro sportivo proprio in perfetta coincidenza con l’uscita della ragazza”.
Bossetti viene condannato, in tutti e tre i gradi di giudizio, all’ergastolo. Nessun dubbio. E’ lui l’assassino di Yara.