Mettete una penna eccellente, una storia piena di ingredienti giusti per un buon piatto e per un delitto: mescolateli insieme e otterrete un romanzo interessante e intrigante a cominciare dal titolo: “Q.B.”.
Per chiunque si diletti fra fornelli e ricetta, q.b. - “quanto basta” - è un’indicazione generica di quantità volutamente imprecisa perché lasciata alla libera scelta di ognuno, ma in questa storia “Q.B.” sono le iniziali di Quinto Botero, lo chef di grido protagonista del “noir” scritto e ideato da Matteo Colombo.
Colombo, neodirettore del settimanale “Il Popolo” di Tortona, giornalista, autore e conduttore di “Bauci” su Radio PNR e docente di Scrittura Creativa, ha scritto della sua terra in monografie e guide turistiche, oltre ad un monologo teatrale per la società “FamaFantasma” dedicato ai 100 anni dell’Inter. Nel 2002 ha vinto il concorso “20.02.2002 Un mercoledì da Italiani” organizzato da Beppe Severgnini su “Italians” e nel 2011 il premio al laboratorio di scrittura “Io scrivo” del “Corriere della Sera” con il racconto “Magari disturbiamo” uscito nella collana “Inediti d’autore” (RCS Quotidiani).
Nel giugno di quest’anno, per Unicopoli è uscito “Q.B.”, il suo primo romanzo, edito per la collana editing free “La porta dei demoni”, diretta da Flavio Santi. Il romanzo, che dopo un lungo tour di presentazioni arriverà a Torino il 29 novembre, presso il Circolo dei Lettori di Via Bogino 9.
Perché ha scelto un’ambientazione così inedita per il suo romanzo d’esordio? Come nasce l’idea della storia?
Questa storia “è venuta a cercarmi” un po’ di anni fa: volevo cimentarmi con il genere più codificato di tutti, il giallo. E provare a raccontare le suggestioni di una vita seguendo uno schema rigido. Mi servivano però un personaggio e un’ambientazione che fossero creativi, in grado di fornirmi un’opportunità di azione. Così ho pensato che uno chef e la cucina del suo ristorante stellato facessero al caso mio. Delitti e arte culinaria si amalgamano bene, sono un ottimo pretesto per sedurre il lettore e portarlo nelle pieghe di un romanzo.
Si nota la scelta sapiente di parole che, come degli ingredienti perfetti, evocano suoni, colori e gusti: crede ancora che le parole possano “creare”?
Ne sono profondamente convinto. Anzi, il senso della mia professione sta tutto lì, nella capacità di scegliere delle parole che abbiano significato, con la stessa cura con cui uno chef sceglie gli ingredienti. Chi scrive ha il dovere etico di ridare alle parole il loro significato originario in un mondo in cui vengono manipolate, svuotate, alterate. È un lavoro di artigianato e, nello stesso tempo, un incantesimo. Abracadabra! Sa cosa vuol dire? In aramaico si può tradurre con “io creo come parlo”. La parola crea, io scrivo e creo. È una gesto faticoso, dolcissimo, pieno di responsabilità.
Perché la scelta di pubblicare per una collana editing free? Uno scrittore con una storia inedita e originale può scalare le classifiche di vendita senza essere legato ai giganti dell’editoria? Il binomio vendite-editore è ancora valido o si può ritenere superato?
Il fatto che l’editor sia intervenuto pochissimo sul mio testo non è per me un motivo di vanto. È capitato così con la mia storia, forse funzionava già. Io credo molto nell’apporto che un editor può dare alla versione finale, il suo contributo all’autore è fondamentale purché ne rispetti le idee e la volontà ultima. Quanto al rapporto tra editore e vendite mi pare che oggi sia scivolato tutto sul versante del marketing. I giganti dell’editoria, con l’autorevolezza del loro nome, spostano le vendite di un romanzo se lo tramutano in “un caso editoriale” e spingono sulla promozione. Ma ciò che conta davvero, che fa la differenza, sono i suggerimenti dei librai e il passaparola dei lettori. Non c’è spot che valga di più del consiglio di un amico che ti invita a leggere un bel libro perché a lui è piaciuto.
Nel suo tour di presentazione farà tappa al Circolo dei Lettori di Torino, dove si parlerà di ricette e parole, alla presenza di Sarah Scaparone e Guido Fejles.
Sarà un onore per me raccontare di “Q.B.” al Circolo, quel tempio della cultura torinese ricco di storia e nel quale sono passati grandi scrittori. Penso che mi lascerò influenzare e affascinare dall’atmosfera che si respira in quelle stanze.
Nel libro si descrivono i nuovi idoli, gli chef stellati, si parla di nebbie e tartufi bianchi.
È vero, si parla della nebbia di Cesare Angelini e Gianni Brera, di ricette, di piatti che sono citati qua e là nei romanzi di Agatha Christie, del profumo dei tartufi e di chef stellati. Lo faccio anche con ironia, quanto basta, perché oggi i cuochi - che stanno sempre più in tv che in cucina - sono diventati dei veri opinion leader e forse si prendono troppo sul serio. Hanno anche cambiato il nostro modo di parlare: vi rendete conto che anche voi, nei vostri tinelli, non servite più del cibo nei piatti sbrecciati, ma impiattate? Si può usare un verbo così brutto? Il mio Quinto Botero, dopo aver cucinato per più di 200 pagine pietanze ricercate e complicatissime, si concede il lusso di farsi due uova al pomodoro. Per me la cucina è questo: tornare a godere delle cose semplici che ci preparava la nonna e recuperare le mie radici.
Il Piemonte sempre nel cuore, protagonista quando si parla di noir, ma stavolta attraverso un mondo nuovo, più accattivante per il lettore?
Il ristorante di Botero potrebbe anche essere nella pianura piemontese, ai margini di una grande città. Io l’ho collocato in provincia di Pavia, dove vivo, ma non cambia molto. Ciò che mi interessava era fare un elogio della provincia, avevo anche in mente il Piemonte, non c’è dubbio. Essere nato in provincia per me è stata una benedizione: qui sei portato a creare di più, a inventare di più perché hai meno stimoli rispetto alla città. Infine sono grato alla provincia perché mi ha insegnato la pazienza, a ritornare sui miei passi e a ri-scrivere, proprio come fa un bravo detective quando va alla ricerca della verità.