di Marco Belletti
Hans Rutger Bosker è ricercatore di psicolinguistica presso il “Max Planck Institute” di Nimega, città olandese a pochi chilometri dal confine con la Germania. I suoi studi si concentrano sui meccanismi psicologici interessati alla produzione e alla percezione del linguaggio, indagando su come gli ascoltatori affrontano variazioni dei segnali vocali per comprendere più facilmente. Inoltre, Bosker studia come le diversità di comportamento di oratori e ascoltatori influenzano la comunicazione, analizzando nel dettaglio le differenze di percezione in caso di disfluenze nel discorso.
In pratica, per dirla con parole e concetti semplici, Bosker e il suo team (così come raccontano sulle pagine del Journal of Memory and Language) cercano di far luce sui meccanismi che sono alla base della comprensione del linguaggio. Perché anche quando non diciamo niente, o esitiamo, o ripensiamo a quello che abbiamo da dire e lo riformuliamo, trasmettiamo ugualmente messaggi e informazioni. Quando usiamo suoni senza significato – almeno in apparenza, in realtà per i ricercatori del Planck Institute ne hanno eccome! – e blateriamo qualcosa come “ehm”, “uhm”, “beh”', i nostri interlocutori riescono più facilmente a intuire come proseguirà il discorso, le parole che diremo.
Sono le cosiddette disfluenze, cioè alterazioni del ritmo della lingua parlata costituite da interruzioni o ripetizioni di fonemi o sillabe. In effetti in tutte le lingue del mondo abbondano i “riempitivi” come uh o ehm, che fanno parte integrante – così come le pause – di tutti i nostri discorsi. Secondo Bosker ne utilizziamo circa sei ogni cento parole pronunciate, che non è poco. In pratica, il sei per cento di quanto diciamo parlando con gli altri sono mugugni che, presi da soli, non hanno alcun senso e non sembra forniscano valore aggiunto alla comunicazione.
E invece gli scienziati hanno scoperto che questi suoni ricoprono un ruolo ben preciso nel discorso, e hanno anche dimostrato che non li pronunciamo in modo casuale, ma più spesso prima delle cosiddette “parole a bassa frequenza”, quelle che nel linguaggio comune utilizziamo meno sovente di altre.
Lo studio mette in evidenza che l’ascoltatore tiene traccia delle disfluenze anche se inserite in contesti imprevisti, a dimostrazione della capacità predittiva e adattativa del nostro cervello, in grado di modificare la percezione delle parole e ridurre i segnali di errore.
A queste conclusioni gli scienziati sono giunti dopo alcuni esperimenti. Nel più significativo i partecipanti, posti di fronte a un computer, dovevano selezionare con il mouse una figura sul monitor, tra due proposte e associate a parole a bassa e alta frequenza come. Per esempio: un bradipo e un cane, uno sfigmomanometro e un bicchiere. A guidarli nella scelta persone che parlavano loro in modo fluente o meno, che inserivano le disfluenze normalmente (cioè prima della parola a bassa frequenza) o in modo inconsueto: i ricercatori – tenendo sotto controllo lo sguardo dei partecipanti allo studio – hanno potuto verificare la loro capacità predittiva, spesso prima che scegliessero l’immagine. Inoltre, dal test è anche emerso che in breve tempo le persone hanno imparato ad associare le disfluenze anche alle parole comuni.
Questa per i ricercatori è la dimostrazione che chi ascolta tiene traccia della posizione delle disfluenze durante le conversazioni, se necessario modificando precedenti intuizioni.
In pratica, ci adattiamo a quanto ascoltiamo, pur con qualche limite: i risultati della ricerca sono meno validi quando a suggerire le figure da scegliere è una persona che parla una lingua per lei straniera come per esempio un italiano che si esprime in tedesco. Se chi parla non è della nostra stessa lingua e dice qualcosa di inatteso, pur facendolo con un certo schema logico e una indubbia ripetitività, non impariamo a predire cosa dirà dopo.
Anche un semplice uh, quindi, ha un’importanza fondamentale nella comprensione del linguaggio e sollecita le capacità predittive e di adattamento di chi ascolta.
Chissà, magari tra qualche anno ai ragazzi basterà guardare in faccia la fidanzata, dirle “gu” e lei capirà immediatamente quanto è amata.