A poca distanza dal caratteristico quartiere Gion a Kyoto sorge il tempio buddista di Kodai-Ji dove i turisti possono comprendere che cosa significasse vivere nel vecchio Giappone, meditando in giardini tradizionali e di sabbia, in sale da tè immerse nel verde, in un boschetto di bambù, ammirando nel contempo il panorama sulla città.
Si tratta di uno dei più grandi templi di Kyoto, fatto costruire nel 1606 da una donna in memoria del marito morto: Kita-no-Mandokoro era conosciuta anche come Nene e con la costruzione del Kodai-Ji voleva mantenere vivo il ricordo dello sposo Toyotomi Hideyoshi, potente generale che aveva unificato il Giappone alla fine del XVI secolo.
Nene divenne sacerdotessa per pregare per l’anima di Toyotomi, vivendo nel tempio fino a quando morì nel 1624: fu sepolta di fianco al marito all’interno dell’edificio. Quell’anno il tempio assunse il nome di Kodai-ji e nei decenni successivi fu costantemente ingrandito e migliorato divenendo rapidamente celebre per lo splendore delle sue strutture, per il suo aspetto grandioso e per le opere d’arte che custodiva. Purtroppo fu distrutto da una serie di incendi alla fine del Settecento, anche se sono numerose le costruzioni realizzate in precedenza che sono sopravvissute e che ancora fanno parte del tempio: il santuario “Otamaya”, la sala del fondatore “Kaisando”, il padiglione per osservare la Luna “Kangetsudai”, le case da tè “Kasatei” e “Shiguretei”.

Il tempio contiene numerosi oggetti decorati con lacca giapponese a motivi dorati chiamati “makie” tipici del tardo XVI secolo. Il lago che circonda la costruzione di Kaisando probabilmente è stato realizzato da uno dei più grandi architetti giapponesi, quel Kobori Enshu che nel Seicento progettò un gran numero di giardini. Alcuni anni fa il governo giapponese lo ha decretato sito storico e luogo di bellezza paesaggistica. Inoltre, a Kodai-ji si svolgono alcune tra le più tradizionali cerimonie del tè nipponiche.
Un luogo magico, quindi, che permette di immergersi in quell’antico Giappone – che tanto affascina noi occidentali – risalente alla società Tokugawa basata su una rigida gerarchia al cui vertice c’erano i feudatari al di sotto dei quali si trovavano samurai, contadini, artigiani e borghesi. Non era un periodo facile in cui vivere. I feudatari erano sempre fortemente indebitati dovendo mantenere un notevole tenore di vita e difendere le proprie residenze mentre i borghesi volendo elevare il loro ceto dovevano dimostrare di non avere problemi economici. Quasi tutti i samurai erano disoccupati e i loro compensi erano molto bassi, tanto che spesso trovavano lavoro come funzionari amministrativi o, addirittura, abbandonavano la casta per diventare contadini.
Tutto questo si respira visitando il tempio di Kodai-ji. O meglio, lo si viveva fino a ieri perché da oggi dopo oltre 400 anni di osservante ortodossia, il tempio cede alla modernità – altro aspetto dominante nella cultura giapponese – e introduce nei riti della scuola del buddismo zen un discepolo decisamente al di fuori degli standard, incaricato a condurre i fedeli verso il satori, l’illuminazione improvvisa.
Il nuovo maestro si chiama “Mindar”, è alto 1 metro e 95 centimetri, pesa 60 chilogrammi e il suo corpo è composto in gran parte di silicone e alluminio. Si tratta cioè di un robot, le cui fattezze dovrebbero ricordare Kannon (la dea buddista della compassione) ma in realtà sono state “astutamente” rese più androgine dell’originale così da permettere ai visitatori del tempio di interpretare il suo sesso come più ritengono opportuno.
Mindar muove gli occhi, la mani e parzialmente anche il busto, facendo sembrare il dialogo più naturale. È anche in grado di unire le mani in segno di preghiera. Nel bulbo oculare sinistro trova spazio una telecamera miniaturizzata che permette all’androide di identificare i suoi interlocutori oltre che seguirli nei movimenti e guardarli negli occhi mentre parla.
Eh sì, perché sa anche parlare! Mindar è in grado di presentare una lezione basata sul “Sutra del cuore”, un testo probabilmente di origine indiana, giunto in Giappone attraverso la mediazione cinese. È uno scritto fondamentale per il buddismo zen i cui argomenti principali sono le dottrine della “vacuità”, dell’insostanzialità e della non esistenza di tutti i fenomeni che ci accadono intorno, fino a affermare cha la realtà è irreale. Una sorta antesignana di filosofia alla Matrix, insomma.
Siccome nello stesso Giappone questa dottrina è considerata da molti totalmente incomprensibile, si crede che possa davvero portare, una volta capita, all’illuminazione. E per farlo, che cosa di meglio di un freddo e logico robot che ci può guidare verso il sommo pensiero di Buddha?
A meno che, invece, la scelta non sia stata motivata dalla necessità di ridurre i costi derivanti dall’assunzione di un costoso dipendente in grado di raccontare la dottrina del Sutra: del resto, tutto il mondo è paese…