Theresa May ha l’aria sfinita: se non riuscirà a passare alla storia come la donna che fece la “Brexit”, riuscirà per l’intensità dei voli fra Londra e Bruxelles. Ogni volta a chiedere agli impettiti burocrati europei un ritardo, uno spostamento, una revisione, una mezza frase a cui aggrapparsi per tornare a Westminster con qualcosa in mano. Che regolarmente viene respinto.
La data del 29 marzo è tropo vicina, lo spettro del “no-deal” un incubo che toglie il sonno. Da Breuxelles, dove sono altrettanto esasperati, hanno accettato di spostare la data in avanti: 22 maggio. Non un giorno di più, perché significherebbe finire dentro alle europee, con il dubbio atroce di far votare il Regno Unito o lasciarlo fuori, anche se tecnicamente è ancora dentro all’UE. Insomma, un delirio.
Una concessione che però ha un diktat ben preciso: spostiamo la data a patto che entro il 12 aprile si arrivi a qualcosa di concreto.
Ma in queste ore, una petizione online per chiedere la revoca della Brexit ha mandato letteralmente in tilt il sito del Parlamento: nel giro di poche ore le firme raccolte sono arrivate al milione e mezzo, e continuano a crescere ad un ritmo forsennato. “Il governo sostiene ripetutamente che uscire dall’UE sia ‘la volontà del popolo’. Vogliamo porre fine a queste dichiarazioni provando la forza del sostegno pubblico, adesso, per la permanenzanell’UE. Un voto del popolo potrebbe non avere luogo quindi votate ora”.
Dal punto di vista legale, commentano gli esperti, la petizione potrebbe avere effetto: l’articolo 50 legalmente può essere revocato unilateralmente in ogni momento prima del ritiro. Secondo le leggi anglosassoni, se almeno 100mila cittadini firmano, il Parlamento è obbligato a considerare la questione fissando entro un giorno il dibattito. Tre giorni per rispondere se le firme superano quota 10mila.