Tutti aspettano con ansia il 31ottobre, al momento ancora data ultima della definitiva uscita del Regno Unito dalla UE. Eppure quel giorno non sarà la fine di un tormentato percorso iniziato tre anni fa, ma l’inizio di una valanga di problemi connessi, interni ed esterni all’UK.
Mentre Boris Johnson tira dritto, fra bluff e pugni chiusi che non fanno paura a nessuno, tranne forse ai suoi connazionali, a montare è la protesta in Scozia. A Edimburgo la gente è scesa in strada per chiedere un secondo referendum, staccarsi definitivamente dal Regno Unito e restare nell’UE, volontà che nel referendum del 2016 era stata ampliamente dimostrata dal 65% degli elettori scozzesi.
A separarsi da Londra ci avevano già provato, il 15 settembre del 2014, quando il 55,42% dei voti si espresse per restare nell’UK, contro il 44,58%, una vittoria risicata che ha lasciato malumori diffusi capaci di ritrovare vigore proprio grazie alla Brexit. A guidare la nuova ondata di secessione è il “All Under One Banner”, formazione indipendentista di Neil MacKay, che dal 2014 non ha mai smesso di chiedere l’addio da Londra.
Non si tratta solo di parole o minacce, ma di una vera proposta di legge varata dal governo scozzese per indire un secondo referendum: “Per dare opportunità di scegliere liberamente se essere una nazione indipendente europea, invece di farci imporre un futuro con la Brexit”. Il riferimento alla tanto temuta uscita con un pericolo “no deal” è chiaro: se volete precipitare nel baratro accomodatevi, ma senza di noi.
Manca all’appello una data, ma quello è il passaggio più delicato, perché per indire il referendum è necessario il via libera da Londra, passaggio che al momento non è neanche preso in considerazione da Westminster, dove i problemi sono altri e ben più urgenti.