A poche ore dall’inizio delle trattative sulla Brexit, Boris Johnson alza i toni: era previsto, a Bruxelles se l’aspettavano. Il premier britannico annuncia la linea dura e lancia il suo ultimatum: se entro giugno non ci saranno “progressi significativi”, il governo è pronto a interrompere le trattative e uscire ben prima del 31 dicembre di quest’anno, data fissata per il definitivo addio del Regno Unito all’orbita UE.
Una presa di posizione probabilmente nata dopo alcuni pareri di alti esponenti di Bruxelles, che nei giorni scorsi hanno parlato di accordo “difficile” anche per via di una pretesa inglese non da poco: evitare i dazi sull’import-export e accesso no limits per i servizi finanziari, ma nessuna garanzia di rispettare le norme europee. È lo stesso BoJo ad ammettere di volere “la botte piena e la moglie ubriaca”.
“Il governo lavorerà con il massimo impegno per arrivare a un accordo, ma se non sarà possibile i rapporti commerciali con la UE si baseranno sull’accordo di uscita del 2019 e saranno simili a quelli dell’Australia”, si legge in una nota diffusa da Downing Street. Per essere chiari: i citati rapporti dell’Australia sono più una battuta, visto che il Paese non ha alcun accordo commerciale con la UE.
A quel punto, lo scenario sarebbe il tanto temuto “no deal”, l’uscita senza alcun accordo che aleggia dall’inizio sull’infinito calvario della Brexit. In quel caso, il Regno Unito si limiterebbe ad avere rapporti secondo le regole del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. L’idea è quella di trasformare il Regno Unito in una sorta di paradiso fiscale, una pericolosa “Singapore” sul suolo europeo, ma il no deal avrebbe probabilmente molte più controindicazioni per l’industria britannica e per le conseguenze che la decisione avrebbe su Scozia e Irlanda, ancor più decise a scatenare battaglia per ottenere l’indipendenza.