Il primo dato è quello dell’affluenza: 200milioni di votanti, merito di un martellante appello al voto che gli europei hanno recepito, Italia a parte, dove invece si è toccato un calo di 2 punti e mezzo in meno rispetto al 2014. Un dato nel complesso considerato confortante, perché forse per la prima volta gli europei hanno dimostrato di sentirsi un popolo: non succedeva dal 1999, vent’anni fa, tempi in cui l’Europa era un concetto quasi astratto e il mondo un pianeta pacifico.
È chiaro fin da subito che a salvare l’Unione Europea sono stati i giovani, capaci di filtrare slogan e promesse pensando più al bene del pianeta: i Verdi crescono ovunque, o quasi, e da loro ci si aspettano azioni concrete perché adesso l’Europa smetta di pensare alle misure delle vongole per impegnarsi a salvare il lavoro, l’aria e il clima.
Fra tanti vincitori e nessun vinto, come da prassi, quelli che vincono lo fanno in modo sonoro: Marine Le Pen in Francia, Viktor Orban in Ungheria e Matteo Salvini in Italia, i tre “celoduristi” europei che fanno il pieno di consensi e sono pronti a battere cassa a casa propria, prima ancora di Bruxelles.
In realtà, ovunque si respira un sospiro di sollievo: i populisti, l’incubo che ha tolto i sonni all’Europa, crescono ma non sfondano, anche questo un segnale forte e chiarissimo: l’Europa va cambiata, ma non annientata, perché piaccia o meno è ormai la casa comune per milioni di cittadini. Anzi, secondo le prime voci che filtrano dai corridoi di Bruxelles si profila un’alleanza fra PPE-S&D e Alde, il gruppo liberale, visto che i primi due non raggiungono i seggi necessari per arrivare alla maggioranza. Ma dopo la lunga maratona elettorale, il concetto di Europa tiene, un po’ stropicciato, ma ancora in salute.
Uno dei casi più eclatanti è proprio l’Italia, dove il tandem che guida il governo ne esce a due velocità: da una parte la Lega, che sfonda il tetto del 34%, dall’altra il carrozzone pentastellato, che perde per strada un patrimonio fatto da milioni di voti e traballa. Secondo tradizione, di fronte a simili crolli verticali il leader si arrende e getta le armi: un’operazione per niente facile in Italia, eppure un piccolo elenco già visto a cui non sembra che Luigi Di Maio voglia accodarsi. La colpa, secondo lui, è dell’astensionismo: dimentica di aggiungere del suo elettorato, in fuga
Ma siamo all’inizio, i panni andranno lavati e non si escludono colpi di scena, perché se va accettata la consuetudine di tingersi d’oro quando si vince, andrebbe rispettata anche al contrario, opacizzandosi fino a sparire.
Ma Salvini, appena riuscirà a mettere via il Rosario, ha di che pensare: sfonda al sud, ma non nelle grandi città, dove torna a rialzare la testa il defunto PD. Eppure anche qui, secondo alcune analisi piuttosto interessanti, il merito non sarebbe neanche tanto della leadership di Zingaretti, piuttosto impalpabile e certamente non di polso, ma di un voto che voleva spostarsi quanto più possibile dall’ingombrante presenza del leader leghista, personaggio costruito con l’accetta, di quelli che ami profondamente oppure odi con ogni cellula del corpo.
Gli altri, fra percentuali in più o in meno, si dividono le briciole, compresa “Forza Italia”, la creatura berlusconiana definitivamente arrivata a fine corsa.
Scontata, e quasi del tutto inutile, la vittoria del “Brexit Party” di Nigel Farage che nel Regno Unito supera il 32%, assestando uno storico ceffone ai Tory di Theresa May, crollati con un 8% che rappresenta il punto più basso mai raggiunto. In Germania tiene la CDU-CSU di Angela Merkel, malgrado un’erosione di voti, e decollano i verdi, in Grecia il 23% dei consensi convince Alexis Tsipras a sciogliere il parlamento e convocare elezioni anticipate.