È dal 23 giugno del 2016, giorno dell’ormai celebre referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione Europea, che un’altra data incombe: il marzo del 2019. Per allora, assicuravano tutti, i sudditi di Sua Maestà diranno addio all’UE con grande sollievo e grandi speranze. Quel giorno è arrivato – il giorno della “Brexit” – e il Regno Unito vegeta in uno stato confusionale che sembra portare dritto verso il “no deal”, la temutissima uscita senza accordo che secondo gli analisti getterebbe la UK nel caos totale.
La più grande crisi politica della sua storia millenaria, la Gran Bretagna la vive da due anni: all’indomani del referendum il premier David Cameron ha preferito darsela a gambe sentendo puzza di bruciato arrivare dal canale della Manica. Al suo posto, il 13 luglio del 2016, arriva Theresa May, 63 anni, leader del Partito Conservatore, il “Tory”. Theresa ce l’ha messa tutta, è andata avanti e indietro da Bruxelles, a volte ricevendo porte in faccia, altre tornando con ipotesi di accordi che Westminster ha snobbato del tutto. E dopo due tentativi andati in fumo, ora che tutto sembra ormai perso (compreso l’onore), la premier mette sul piatto la propria testa: firmate l’accordo e vado a casa. Non che questo basti a placare gli scranni di Westminster: essendo la terza volta che il parlamento vedeva sottoporsi lo stesso accordo, non era neanche scontato che accettassero di discuterlo. Dopo aver salvato almeno la forma stralciando solo la parte del trattato che specifica i termini dell’uscita (ma non le relazioni bilaterali con i 27 paesi della UE), è arrivato il via libera di John Bercow, il colorito speaker della Camera.
È l’ultima spiaggia per non arrivare al 12 aprile, data concessa dalla UE, con in mano il no-deal, conquistando così lo spostamento della separazione al 22 maggio, evitando l’imbarazzo delle elezioni europee che altrimenti avrebbero costretto il Regno Unito al voto. Se mai l’accordo passasse, nessuno avrà tempo di rifiatare: per quella data dovranno essere pronte le bozze per una Brexit quantomeno frutto di una negoziazione, compresa una road map sulle future relazioni con l’Europa.
Ma nelle 595 pagine del trattato ci sono almeno due punti assai spinosi: i conti finali, con 45 miliardi di euro da versare a Bruxelles, i diritti dei cittadini europei che risiedono in Gran Bretagna e di quelli inglesi che invece vivono in Europa, e il così detto “backstop”, il meccanismo che dovrebbe scongiurare il confine fra le due irlande. È proprio questo, il punto su i dieci deputati del partito democratico unionista nordirlandese hanno già annunciato il loro secco “no” all’accordo, minando per questione di poco l’esito del voto.