Il 20 marzo del 1986, Michele Sindona, faccendiere, banchiere, criminale e tessera n. 0501 della loggia “P2”, entra nel carcere di Voghera seguito dalla condanna all’ergastolo come mandante dell’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. È guardato a vista, protetto da blindature, porte, agenti e telecamere: come ogni mattina, Sindona beve un caffè lungo e del tè con un po’ di latte. Si sente male poco dopo: lo portano d’urgenza all’ospedale, ma non riescono a fare nulla. Muore due giorni dopo, il 22 marzo: qualcuno, forse lui stesso, ha messo del cianuro di potassio nella sua colazione. Era nato a Patti, in provincia di Messina, nel maggio del 1920, figlio di un fioraio. Studia dai gesuiti, diventa contabile all’ufficio imposte di Messina, si laurea in giurisprudenza. Ma è a Milano che diventa il commercialista più richiesto sulla piazza: politici, finanzieri, industriali e alti gradi militari affidano a lui i loro capitali da esportare all’estero. Sindona è bravo, furbo, spregiudicato, intelligente e sa sempre da che parte spirerà il vento. Alla metà degli anni Settanta diventa un nome di spicco nella finanza internazionale: è Roberto Calvi a introdurlo nei giri che contano, presentandogli personaggi del calibro di Licio Gelli e il vescovo Paul Marcinkus. La morte di Sindona resta uno dei tanti misteri d'Italia, grande almeno quanto quelli che si è portato nella tomba quel giorno.