Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio di 50 anni fa, cinque studenti decidono di scendere in piazza per protestare: sono delusi dalla fine della “Primavera di Praga”, le stagione riformista che aveva dato speranze al popolo cecoslovacco, conclusa a forza dall’arrivo dell’esercito sovietico. Uno di loro, Jan Palach, si ferma ai piedi della scalinata del Museo Nazionale, in piazza San Venceslao, si cosparge il corpo di benzina e si dà fuoco. Un tramviere tenta di spegnere le fiamme, ma lo studente 21enne muore dopo tre giorni di atroce agonia per le terribili ustioni riportate. L’agenzia di stampa cecoslovacca cita brevemente un suicidio, omettendo il nome di Palach, ma è inutile: il suo gesto diventa un esempio e nelle settimane successive ai funerali, a cui partecipano 600mila persone, altri sette giovani si toglieranno la vita pubblicamente, questa volta nel più completo silenzio dei media. Per il suo sacrificio, che riuscì a scuotere le coscienze del mondo intero, Jan Palach è ricordato come un eroe, un martire e un simbolo della resistenza antisovietica: solo nel 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, le sue ceneri sono state trasferite nell’Olsanske hrbitovy di Praga. Prima di allora alla famiglia era stata vietata la sepoltura.