Il 27 marzo 2015, dopo un iter processuale lungo sette anni, la Suprema Corte di Cassazione assolve Raffaele Sollecito e la studentessa americana Amanda Knox dall’accusa di omicidio per la morte di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa il 1° novembre 2007 in circostanze ancora oggi mai del tutto chiarite. Da allora, per i due giovani si sono riaperte le porte dei carceri dove sono stati rinchiusi: lei è tornata a Seattle, dalla sua famiglia, Sollecito invece tenta ancora di ricostruirsi una vita. Un’impresa non facile per questo ragazzo barese, classe 1984, studente di informatica, finito al centro di uno dei casi più mediatici degli ultimi anni.
Le cronache, salvo casi sporadici, hanno smesso da tempo di occuparsi di Amanda e Raffaele, ma questo – almeno per quel che riguarda Sollecito – non basta a restituirgli un’esistenza normale. È il senso di un’intervista rilasciata dal giovane pugliese ai microfoni di “Radio Italia”.
“La mia vita è sempre stata marchiata da questa vicenda. Ormai, per questione di autoconservazione non mi curo più dello sguardo della gente. Ma ho la prova tangibile del marchio d’infamia con cui sono costretto a convivere da proposte di lavoro sfumate perché mi confessavano che non potevano assumere una persona come me, per non avere pubblicità negativa”.
“Tante volte ho temuto di non farcela, negli anni del mio calvario: sia quando ero in carcere che fuori .- prosegue Sollecito - ho avuto uno spirito positivo, nel senso che ho sempre pensato che le cose in un modo o nell’altro dovessero venire alla luce, e ho potuto contare su una famiglia che mi è stata vicina”.
Poi, ad una domanda diretta su Amanda confida di non sentirla più da tempo: “Non ho più fiducia nella giustizia italiana, ma nessuno mi ha chiesto scusa e neanche abbiamo mai avuto risarcimenti: ci siamo indebitati in maniera distruttiva e ne stiamo ancora pagando le conseguenze”.