
I dirottatori, che in realtà pare fossero quattro, facevano parte della cellula di Al-Qaeda che quel giorno ha messo l’America in ginocchio uccidendo 2.937 persone fra le Twin Tower di New York e il Pentagono, a Washington. Soltanto con il volo 93, i terroristi non sono riusciti a raggiungere l’obiettivo, probabilmente la Casa Bianca o il Campidoglio.
A bordo c’erano 37 passeggeri e 7 membri dell’equipaggio: alle 8:42 il volo lascia la pista di Newark, alle 9:27 parte l’ultimo messaggio diretto ai controlli del traffico aereo. Oltre a Bingham, diversi altri passeggeri, tra cui Todd Beamer, riescono a mettersi in comunicazione con l’esterno. Beamer si mette in contatto con Lisa D. Jefferson, un’operatrice telefonica, spiegandole cosa accade sul volo e annunciandole la decisione compatta dei passeggeri di assaltare i dirottatori per riprendere il controllo dell’aereo: insieme recitano il Padre Nostro, poi la telefonata cade.
Alle 10:03 il volo United 93 si schianta in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennysilvania, creando un cratere di 35 metri. Non ci sono superstiti, e i morti dell’11 settembre salgono a 2.977.

Secondo le ricostruzioni, rese possibili dai dialoghi registrati dalle scatole nere, Mark Bingham fu tra i primi a ribellarsi ai dirottatori. Aveva 31 anni, era nato il 22 maggio del 1970 a Phoenix, Arizona: laureato in scienze sociali a Berkeley, in California, era diventato un imprenditore, a capo di una compagnia di pubbliche relazioni con sede a San Francisco. La sua passione era il rugby: insieme ad alcuni amici aveva fondato i “San Francisco Fog”, la prima squadra americana aperta ai giocatori gay, come lui.
È proprio questo, ad essere diventato il lascito di Mark, e una parziale consolazione alla pena infinita di sua madre Alice. Dopo la sua morte, diverse squadra gay friendly formarono la “Gay Rugby Associations and Board”, organizzando per il 28 luglio dell’anno successivo la prima Coppa del Mondo LGBT di Rugby, poco dopo ribattezzata “Bingham Cup”. Un torneo per 15 squadre dilettantistiche a cadenza biennale aperto a giocatori di qualsiasi orientamento sessuale.

Secondo Gus Ventura, fiduciario nordamericano dell’IGR (International Gay Rugby), la vicenda di Mark Bingham ha avuto “un enorme impatto nella crescita di questo sport” negli Stati Uniti e ha contribuito a “mitigare la diffidenza che spesso incontrano gli atleti gay”.
Parlando di recente nel documentario “Legacy: The Mark Bingham Story”, l’ex compagno di squadra e amico Chris Zerlaut ha detto che l’impatto del gesto di Mark è stato travolgente: “Quando centinaia di persone si avvicinano a te e dicono: 'Ero sull’orlo del suicidio, Mark ha cambiato la mia vita’, allora tutta questa storia e il suo sacrificio diventano qualcosa di incredibile”.
Lo scorso anno, alla Bingham Cup hanno preso parte 78 squadre provenienti da 20 paesi, il che lo rende uno dei più grandi tornei di rugby al mondo. L’edizione 2018 ha visto le squadre femminili competere per la prima volta, mentre gli organizzatori sperano che l’evento previsto nel 2020 a Ottawa, in Canada, sia ancora più grande.
Alice Hoagland si commuove ogni volta che sente queste storie: ricorda che prima dell’11 settembre suo figlio si lamentava spesso, perché non c’erano in giro “abbastanza eroi gay” e che il mondo preferiva liquidare quelli come lui solo con tanta ironia. “Per me, che Mark continui a ispirare il prossimo sfidando questi stereotipi è fonte di orgoglio. Il modo in cui tutti lo ricordano e lo onorano mi ha aiutato profondamente ad affrontare il mio dolore. La gioia che vedo nei giovani quando giocano mi ricorda molto quella di Mark. Vorrei solo che fosse qui anche lui: solo così sarebbe tutto perfetto”.