È stato un attimo: l’onda si è alzata, e Mercedes e la sua tavola sono svanite, risucchiate in una nuvola d’acqua. Qualcuno intravede quello che succede sott’acqua: nella caduta, la tavola la colpisce alla testa: non è una caduta come tutte le altre, quelle che chi fa surf a certi livelli è abituato ad affrontare. La caricano su una moto d’acqua e torna a riva: un rivolo di sangue le scende lungo il viso da un taglio sopra l’occhio sinistro, ma lei sorride e mostra il pollice ai fotografi per dire è tutto ok.
“L’ho vista un paio di minuti fa, è tranquilla - racconta quel giorno un commentatore durante uno show televisivo - ha solo una piccola ferita, ma non c’è neanche bisogno di portarla in ospedale per mettere dei punti di sutura”.
Mercedes Maidana quella notte inizia a vomitare, e più passano le ore, peggio si sente. La portano in ospedale, dove i medici dopo una Tac fanno in fretta a capire: è una lieve commozione cerebrale. Può tornare a casa e riposare, passerà tutto.
È tornata a casa, alle Hawaii, ma pochi giorni dopo la sua mente e il suo corpo hanno cominciato a non rispondere più. Al momento della gara, nel marzo del 2014 a Nelscott Reef, a due ore di macchina da Portland, Oregon, Mercedes Maidana era uno dei migliori surfisti del mondo. Da quando ha iniziato a praticare questo sport a vent’anni aveva lavorato instancabilmente e ossessivamente, passando ore e ore al giorno a sviluppare l’abilità fra le onde selvagge della North Shore di Maui, e altrettante a sviluppare la sua forma fisica.
Eppure, a poche settimane da quando la sua fidata tavola l’aveva colpita sulla fronte, riusciva a malapena a scendere dal divano e parlare. La lingua era diventata di piombo, e una stanchezza infinita l’accompagnava tutto il giorno, rendendo difficile anche scrivere un sms. Era preda delle vertigini, confusa, ansiosa, depressa, paranoica: tre mesi dopo l’incidente, il marito chiede il divorzio.
“Il mio mondo era crollato, un pezzo per volta: ho perso mio marito, il mio cane, la mia casa, i miei sponsor, avevo un’attività di coaching, ma non potevo più gestirla. Tutto per quel taglio sul sopracciglio: erano preoccupati per il sangue, invece di quello che stava succedendo sotto”.
Esistono anche statistiche al riguardo: mentre le commozioni cerebrali negli sport di contatto attirano la ricerca e l’attenzione dei media, le ferite dei surfisti sono un argomento di cui nessuno parla, malgrado effetti che possono essere potenzialmente devastanti. Gli studi suggeriscono che una minoranza di surfisti subiscono ogni anno lesioni alla testa che portano al declino cognitivo oltre al pericolo immediato di annegamento.
Un’analisi delle commozioni cerebrali legate fra i surfisti della costa occidentale del Canada, realizzata nel 2018 da Nikolaus Dean dell’Università della British Columbia, ha scoperto che la cultura sportiva “incoraggia la negazione e la minimizzazione dell’infortunio”. C’è una certa riluttanza a indossare copricapo protettivo, un livello di assistenza medica limitata e qualche protocollo che più che altro impone tempi di recupero precisi prima di tornare fra le onde.
“È uno sport che ha in sé uno stile di vita felice: siamo in spiaggia, c’è il sole, è pieno di bella gente e gli sponsor vanno pazzi per quell’immagine - racconta Mercedes - nessuno parla di infortuni”.
Un altro surfista d’élite, Shawn Dollar, nel 2012 ha stabilito un record mondiale cavalcando un’onda di quasi venti metri: l’anno successivo si è schiantato contro uno scoglio mentre faceva surf in una località remota al largo della costa californiana, rompendosi il collo in quattro punti e subendo una forte commozione cerebrale. Le ossa sono guarite, ma il suo cervello fatica ancora a riprendersi: “Inizia ad andar meglio, ma ci sono voluti tre anni e molto lavoro”.
Qualche tempo dopo Mercedes ha provato a tornare in acqua, ma un mix di paura ed emozione la bloccava. Eppure aveva bisogno di denaro per pagarsi le cure mediche non coperte dall’assicurazione e si è adattata: ha provato a consegnare le pizze e ad offrirsi come donna delle pulizie, ma il fisico non reggeva. Un medico, durante un controllo, l’ha messa in guardia: “Sei ad un centimetro da un ictus, se vuoi vivere dimentica il surf”. Mercedes capisce che per salvarsi la vita deve allontanarsi da quell’oceano che lei chiamava casa: si trasferisce ad Austin, in Texas, e trova lavoro in un bar, ma iniziano a sfiorarla pensieri suicidi: “Pensavo di continuo a come farla finita: la mia vita senza le onde non sapeva di niente, ho passato i migliori anni della mia vita su una spiaggia delle Hawaii e mi ritrovavo a fare la cameriera ad Austin”.
Nella sua mente che cerca pace, le rimbalzano senza sosta le immagini di quel giorno: “Le onde erano più alte di quel che mi aspettassi, ricordo di essere diventata nervosa, a disagio. Un’onda di una decina di metri mi ha travolta: ho provato a tuffarmi per passarle sotto, ma la tavola mi ha colpita con una forza inaudita e tutto è tutto è diventato nero e confuso. Capivo di essere sott’acqua e l’ossigeno iniziava a mancarmi, sentivo il battito del cuore aumentare e in un certo senso volevo soltanto che finisse tutto in fretta. Credo di essere stata sfiorata dalla morte: non so come, ma ho tirato la cordicella del mio gilet gonfiabile e sono riemersa”.
Daniel Amen, un medico californiano che ha curato numerosi surfisti, tra cui Mercedes Maidana e Shawn Dollar, sa che le lesioni al lobo frontale influenzano il controllo del giudizio e degli impulsi: “Il surfista dev’essere incredibilmente coordinato e prendere decisioni in una frazione di secondo. Ma quelli che ci riescono sono molto pochi”.
A Mercedes resta la speranza che la sua esperienza faccia crescere la consapevolezza dei pericoli del surf, anche se teme che un cambiamento sarà difficile: “Non credo che i caschi faranno la differenza, conosco i surfisti e so che sono incoscienti a sufficienza per sapere che saltare su un’onda gigante può avere effetti devastanti. Quando parlo con i ragazzi più giovani mi rendo conto che sono colpiti da quello che ho passato e si chiedono come possono evitarlo, come possono prendersi cura di se stessi, cosa devono fare. Ci sono passata anche io: poi si esce in mare e tutto il resto diventa secondario. Tornavo a casa e dicevo a me no succede. Fino a quel giorno”.