Di Marco Belletti
Mohammad Furqan ha 25 anni e vive a Lucknow, una città nel nord dell’India. L’esperienza che ha recentemente vissuto è davvero unica: gravemente ferito in un incidente stradale il 21 giugno, è stato trasportato in ospedale dove, dopo una lunga agonia, è stato dichiarato morto il 1° luglio. La famiglia disperata ha così iniziato a predisporre la cerimonia funebre ma prima che Mohammad Furqan fosse sepolto, un fratello ha notato che il suo corpo si muoveva: dall’obitorio è stato portato immediatamente nella corsia di un secondo ospedale dove i medici hanno potuto constatare – contrariamente a quanto affermato un paio di giorni prima dai colleghi dell’altro nosocomio – che era vivo. In un’intervista televisiva, i familiari dello sventurato ragazzo hanno spiegato che nel primo ospedale avevano pagato per il ricovero circa 80 sterline e quando, alla richiesta di altri soldi da parte dei medici, avevano confidato di non averne più, Furqan era stato immediatamente dichiarato morto.Casi come questo sono estremamente rari in epoca moderna, ma prima delle ultime innovazioni della medicina la possibilità di essere sepolti vivi non era poi così rara, con numerosi casi di persone sotterrate quando ancora non erano decedute. Per evitare questa evenienza, alla fine del Settecento l’anatomista danese Jacques-Bénigne Winslow enunciò una serie di riscontri da effettuare sul presunto cadavere: versare aceto e sale o urina calda nella bocca, inserire insetti nelle orecchie, incidere le piante dei piedi con lamette. Secondo Winslow questi interventi avrebbero risvegliato chiunque fosse in stato di morte apparente.
Nell’Ottocento si sviluppò l’uso della respirazione bocca a bocca per rianimare le persone considerate morte: alla fine di quel secolo sembra che quasi il 2 per cento delle persone riesumate fossero senza dubbio vittime di uno stato di morte apparente e probabilmente sepolte vive.
Di fianco a casi documentati, negli anni fiorì una serie di leggende: persone entrate in uno stato di letargia che si risvegliarono nella bara per morire di una morte orribile, oppure sepolcri riaperti dopo anni dalla chiusura in cui si trovavano cadaveri con le mani sollevate in alto e segni di graffi sulla parete interna della bara…
La paura di seppellire persone vive si diffuse negli obitori tedeschi, per cui divenne usuale la pratica di non inumare i corpi fino alla comparsa di chiari segni di decomposizione. E se per i medici il rischio di poter inumare persone vive era solo un timore, per chi invece sospettava di poter essere sepolto vivo era un vero e proprio terrore. Per questo motivo furono elaborate soluzioni per tranquillizzare chi aveva paura, come le costose “bara di sicurezza”, con coperchi in vetro, campanelli per avvisare di essere ancora vivi, tubi collegati all’esterno per poter respirare fino al salvataggio.
La prima descrizione scientifica di questa fobia fu esplicitata da uno psichiatra e antropologo italiano, Enrico Morselli. Nato il 17 luglio 1852 a Modena, nella sua opera “Sulla dismorfofobia e sulla tafofobia” coniò in un colpo solo due termini e la relativa patologia: la prima è la fobia della visione distorta che si ha del proprio aspetto esteriore, causata da un’eccessiva preoccupazione per l’immagine corporea. La seconda è appunto la paura irrazionale di essere sepolti vivi, in seguito all’errata constatazione della morte.
Morselli nel suo testo fornì un completo quadro psicopatologico della tafofobia, definendola come una forma decisamente rara ed estrema della claustrofobia. Nel corso degli anni la ricerca medica ha stabilito che questa fobia non sembra avere eccessiva rilevanza clinica in quanto generalmente ne soffrono gli anziani che in gioventù erano rimasti colpiti dalla lettura di racconti ispirati a questo fenomeno.
Infatti la letteratura – sostanzialmente quella di genere horror ma non solo – ha sempre utilizzato il topos narrativo legato alla paura di essere sepolti vivi. Edgar Allan Poe, vero maestro del genere, nel 1844 scrisse “La sepoltura prematura” che parla proprio di una persona che soffre di tafofobia. Sono numerosi i racconti di Poe che parlano di questo argomento, come “La caduta della casa degli Usher” o “Il barile di Amontillado”. Tra l’altro, lo scrittore nato a Boston 110 anni fa, era a sua volta tafofobico e riversava nella scrittura tutte le sue paure.
Il celebre scrittore russo Nikolaj Vasil’evič Gogol’ è considerato il padre della letteratura russa ed è celebre per i suoi numerosi e dissacranti racconti sulla vita di tutti i giorni in Russia: era un maestro nel raffigurare situazioni satirico-grottesche sullo sfondo della desolante mediocrità umana, con uno stile visionario e fantastico. Gogol’ soffriva di tafofobia, oltre che di sindromi depressive e di ricorrenti crisi mistiche che lo spingevano a rispettare rigorosamente lunghi periodi di digiuno e penitenza che lo indebolivano e lo portarono addirittura alla morte, nel 1852, pochi giorni prima di compiere 43 anni.
Nel 1852 bruciò la seconda parte del suo romanzo “Le anime morte” in seguito a una crisi religiosa provocata da un forte conflitto interiore che lo attanagliava: da un lato la volontà di proseguire a descrivere in modo estremamente satirico i costumi della contemporanea società russa, dall’altro il desiderio di comprendere cristianamente gli altri senza provocare dolore o rancori.
Il corpo di Gogol’ fu riesumato nel 1931 e sembra che il cadavere non sia stato trovato al suo posto, ma spostato all’interno della bara. Si sparse la voce che lo scrittore fosse stato davvero sepolto vivo come temeva ma questo fenomeno può essere facilmente spiegabile a causa della pressione esercitata nella cassa dai gas di putrefazione.