di Massimo Numa
Sezione di Alta Sicurezza, carcere di Latina. Qui in questo edificio ordinato e dalle linee squadrate, con un’atmosfera che ricorda quella di un ospedale o di una clinica con i pavimenti tirati a lucido, l’odore di disinfettante e la quieta animazione di malati, parenti, medici ed infermieri, dal 1988, sono rinchiuse le ultime brigatiste rosse, militanti residuali di un mondo che non c’è più, con i tre prigionieri in regime speciale di 41 bis: Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi, rinchiusi però in altri istituti di pena.
Sono Susanna Berardi (in carcere dall'88); Maria Cappello (il marito, Fabio Ravalli, arrestati entrambi nel 1988 a Roma sta scontando l'ergastolo per gli stessi reati, lui fu catturato nell'88 in un covo a Roma); Barbara Fabrizi ('83), Rossella Lupo ('88) e Vincenza Vaccaro ('88). Stanno scontando da "irriducibili" la condanna all’ergastolo per una serie di delitti e altri gravi reati. Tra i 58 e i 64 anni, dividono il braccio con due giovani donne lontanissime dal loro percorso ideologico, le anarchiche della Fai-Informale Anna Beniamino e Valentina Speziale, che hanno scelto sì la strada del terrorismo ma in modi e forme totalmente diverse. La stessa sezione di Alta Sicurezza è divisa in due piani: le ex terroriste sopra e sotto le donne condannate per mafia o narcotraffico.
Rossella Lupo
Il termine di irriducibili, per una volta, è esatto. Basterebbe molto poco per tornare in libertà come hanno fatto Barbara Balzerani, Susanna Ronconi e Sergio Segio, tanto per esempio. Dovrebbero sostenere di non essere pentite ma dissociate, di considerare chiusa l’esperienza della lotta armata, di riconoscere in qualche modo le istituzioni della Repubblica nata - non si dimentichi - dalla Resistenza. E invece niente. Il tempo s’è cristallizzato nel corso dei decenni; loro sono invecchiate lentamente nella monotonia di giornate tutte eguali, scandite dall'ora d'aria e da qualche rara attività ricreativa che non comportasse però un riconoscimento, anche indiretto, di quello Stato che le ha ristrette da decenni. Fanno ginnastica, percorrono chilometri correndo, per tenersi in forma, sono curate nell'aspetto e nei vestiti.
Mantengono rapporti con i loro familiari, vedono i figli lasciati che erano bambini per andare in carcere e ora maggiorenni, sono già nonne; curano la propria mente, nei meandri di selezionate librerie, e sempre con lo sguardo rivolto al passato. Usano lo stesso linguaggio di allora, lo Stato è sempre quello Imperialista e delle Multinazionali, tra loro sono “compagne” e sia ben chiaro che la lotta armata è ancora oggi un’opzione che si può percorrere e che era giusto percorrere.
Quando Massimo D'Antona, il giuslavorista assassinato a Roma, in via Salaria, il 20 maggio del 1999 ad opera delle Br di Lioce-Galesi (la prima all’ergastolo a L’Aquila, il secondo morto in un conflitto a fuoco con la polizia in cui un agente restò ucciso), le cinque ex ragazze avevano scritto una sorta di rivendicazione, in parte a mano e in parte a macchina. Lo stile sembrava più vicino al modo di scrivere - e di pensare - a quello della figura più autorevole e carismatica del gruppo, Maria Cappello. Faceva parte del commando che assassinò il sindaco di Firenze, Lando Conti, ucciso con 17 colpi di pistola il 10 febbraio 1986, lei aveva 33 anni quando entrò per la prima volta nella cella 252 della sezione di Alta Sicurezza. Periodicamente va a trovare - sotto scorta su un blindato della polizia penitenziaria - il marito, Fabio Ravalli, che sta scontando l'ergastolo per gli stessi reati.
Per loro le istituzioni carcerarie sono una mera espressione delle istituzioni e però non le riconoscono; hanno però chiesto e ottenuto di lavorare nelle attività consentite, e lo fanno tutte, compresi piccoli lavori di artigianato con il marchio Pig, acronimo di “Pellacce in gioco”. Per il resto vivono in una rassicurante bolla del tempo, anche una forma di auto-protezione. Del mondo esterno, di internet, dei social, di bancomat, smartphone, tecnologie hi tech, sanno poco, cioè quello che filtra da fuori. Meritano, se non rispetto (sono persone che hanno ucciso innocenti), almeno un minimo di un'attenzione diversa. Avrebbero potuto scegliere la scorciatoia dei tanti pluri-assassini di Brigate Rosse e Prima Linea che hanno fatto carriera sul sangue versato - anche dei loro compagni - e oggi sono arruolati in aziende di sicurezza o coccolati nei salotti radical chic. Liberi di ripetere i vecchi slogan sulle pagine Facebook e di tirare qualche pietra, come è avvenuto nella vertenza Tav, a Chiomonte appena 6 anni fa.
Su un sito antagonista, commentando le notizie filtrate recentemente dal carcere di Latina erano state scritte queste parole, rivolte ai media: "È vero, la gran parte dei quelle e quelli che attraversarono quei miseri luoghi senza vita né tempo che sono le galere, oggi sono liberi. Ma non perché siano pentiti o dissociati, o graziati o collaboratori di giustizia, questo è un falso. La gran parte ne è uscita con la schiena dritta e a testa alta, senza rinnegare il proprio percorso collettivo, senza dar nulla in cambio, da compagne e compagni, utilizzando le leggi esistenti. Certo, sono usciti dopo 30 anni, o giù di lì, trascorsi in quei luoghi disumani e hanno ripreso il loro posto nella conflittualità sociale che caratterizza la realtà attuale. Queste cinque compagne ritengono di non avvalersi di quelle leggi, hanno le loro ragioni. Chiedete che sia data parola a queste prigioniere, a Susanna Berardi, a Maria Cappello, a Barbara Fabrizi, a Rossella Lupo e a Vincenza Vaccaro. I dirigenti delle carceri vi diranno che non è possibile che la parola è a loro negata, bene, allora dovete battervi per ottenere che sia data a queste cinque compagne la parola perché siano loro a raccontare le loro scelte, non voi per loro. Se non siete capaci di far questo, continuate a crogiolarvi nella vostra ignoranza, ma fatelo in silenzio".