di MASSIMO NUMA
Trentotto anni fa, alle 11 del 28 maggio 1980, in via Sailano a Milano, un commando di sette terroristi di sinistra della Brigata XXVIII marzo uccise il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Aveva 34 anni, originario di Spoleto, era sposato e aveva due figli. Gli assassini furono catturati poco dopo dai carabinieri. Sono (gli assassini non sono mai ex) Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi Di Stefano. Barbone esplose il primo colpo, disse Marano in Tribunale, la voce tremante mentre il killer, chiuso in gabbia, guardava altrove.
Alcuni erano figli della borghesia milanese, altri attivisti di Lotta Continua e di altri gruppi dell'estrema sinistra. La fidanzata di Barbone, Caterina Rosenzwieg, uscì indenne dall'inchiesta. Barbone, arrestato il 25 settembre di quell'anno, si pentì subito e consentì agli inquirenti di smantellare la Brigata XXVIII marzo; fu condannato a 8 anni e ne fece, di galera, solo 3. Fu lui, assieme a Marano, a sparare cinque colpi di pistola contro Tobagi, colpo di grazia compreso. Barbone se n'è andato all'estero, e si sa poco di come abbia vissuto. Rosenzweig aveva pedinato Tobagi per mesi ma fu assolta per insufficienza di prove. Barbone, successivamente, disse di essersi pentito, non solo nel senso giudiziario (per avere uno sconto di pena, come accadde) ma proprio per l'assassinio, per le qualità umane di chi aveva ucciso. E chissà se, nel frattempo, si sono pentiti anche quei suoi ex colleghi del Corriere che in allora esultarono e che, nei mesi precedenti il delitto, attaccavano Tobagi per il suo lavoro, per il suo modo di raccontare il terrorismo senza ammantarlo della retorica del "giustificazionismo" ante litteram. La colpa peggiore di Tobagi, era infatti quella di non rievocare, come un mantra, che la lotta armata dell'ultrasinistra era solo una risposta alle stragi di stato, al clima da guerra fredda di quegli anni. Li smitizzava, gli eroi della stella rossa cerchiata. Li riduceva, con analisi lucide e - purtroppo per lui - ben comprensibili anche a chi magari simpatizzava con loro, a quanto in realtà erano: assassini inutili. E' vero, quella mattina in via Salaino, spararono le pistole di Barbone e Marano, ma alle loro spalle c'erano i tanti complici rimasti nell'ombra, nel buio di redazioni infiltrate da simpatizzanti, se non di più, del terrorismo rosso.
E' accaduto anche a La Stampa, quando fu ucciso Carlo Casalegno. E' accaduto prima (e dopo) della morte del commissario Luigi Calabresi, quando intellettuali e non solo, firmarono il famoso manifesto in cui, se non lo condannarono in modo diretto, spianarono la strada ai suoi assassini. Nella rivendicazione, Barbone riportò una serie di dati sensibili, sul ruolo di Tobagi nel Corsera, che fecero subito pensare a un'istruttoria compiuta con l'aiuto di qualcuno ben addentro ai meccanismi sindacali del quotidiano. E le riunioni della Brigata XXVIII marzo si tenevano non distante da dove lavorava Tobagi, negli uffici di via Solferino.
L'isolamento di Tobagi era palpabile e ben conosciuto. Era un uomo di ideali socialisti, di matrice cattolica. Di lui, Barbone disse che le sue analisi erano troppo mirate, troppo efficaci per lasciarlo in vita. I radical chic di allora e di ora non sono cambiati. Sono sempre gli stessi, più o meno. Tobagi era una persona onesta, forse è un aggettivo poco teatrale, mentre oggi si sprecano le patenti di "eroe" anche per chi fa il proprio dovere. Si sarebbe infastidito se lo avessero definito così, per quel suo coraggio silenzioso e sotto-traccia, mentre negli ultimi mesi andava a Genova, Torino, Roma, ovunque - anche nei santuari brigatisti - per spiegare pacatamente come la scommessa del partito armato fosse una follia o una fesseria. Lo vogliamo ricordare così, un giorno lontano a Genova nella redazione de Il Lavoro, con una borsa ammaccata piena di carte, seduto davanti alla scrivania di un collega della cronaca. Lo sguardo preoccupato. Tornò a Milano nella notte. Lasciò la redazione. Ad attenderlo l'autista con l'Alfa del giornale. Un uomo solo.