È notte fonda quando il presidente Trump in persona autorizza l’attacco: due missili probabilmente sganciati da droni centrano in pieno un convoglio delle PMU, le forze di mobilitazione popolari irachene, uccidendo sette persone: cinque alti esponenti nel movimento e due iraniani. Uno dei morti è Abu Mahdi Al-Muhandis, il capo delle PMU, che lo scorso 30 dicembre ha ordinato l’attacco all’ambasciata americana, l’altro il generale Qassem Soleimani, 62 anni, al comando delle leggendarie guardie rivoluzionarie irachene e punto di riferimento per gli ayatollah, da molti considerato la futura guida del Paese.
Due morti eccellenti, che alzano fino al livello di guardia la tensione fra Iran e Stati Uniti, minacciando anche gli stretti equilibri dell’intero Medio Oriente: attraverso le parole della guida Al Khamenei, Teheran assicura che “Il lavoro e il cammino del generale Soleimani non si fermeranno e una dura vendetta attende i criminali”. Dal Pentagono spiegano che il generale “stava mettendo a punto attacchi contro diplomatici americani e personale in servizio in Iraq: erano responsabili della morte di centinaia di americani. Il raid è un deterrente per futuri di attacco dell’Iran. Gli Stati Uniti continueranno a prendere tutte le azioni necessarie per tutelare la nostra gente e i nostri interessi nel mondo”.