Carrie Lam, dal 1° luglio 2017 capo esecutivo di Hong Kong, è stanca. Sulla pelle sente il peso di tredici settimane continue di scontri e proteste, scatenate da quando ha incautamente annunciato l’entrata in vigore dell’estradizione in Cina: parole che la gente di Hong Kong non le ha perdonato, neanche quando la proposta di legge è stata momentaneamente sospesa. Ormai la piazza vuole la sua testa, e non sembra intenzionata a mollare.
La chief executive di Carrie Lam, alias inglesizzato di Cheng Yuet-ngor, classe 1957, è stata registrata mentre incautamente si lamentava davanti a un ristretto gruppo di uomini d’affari in un audio di 24 minuti diffuso dall’agenzia di stampa Reuters. “Essere la causa di questo enorme caos è imperdonabile, se potessi farlo lascerei il mio incarico – confessa con un filo di voce la donna che guida Hong Kong – ma ho uno spazio di manovra limitatissimo: la questione è diventata un problema nazionale di sovranità e sicurezza e lo spazio politico di uno chef executive che deve servire due padroni si riduce in modo sostanziale. Per me è diventato difficile uscire di casa, non posso andare in un centro commerciale o dal parrucchiere perché so che sarei individuata e in un amen mi ritroverei circondata da una folla vestita di nero”.
In qualche modo, parole che confermano il sospetto dei cittadini di Hong Kong, che ritengono Carrie Lam soltanto un prestanome agli ordini dei governanti di Pechino, preoccupati di riportare l’ordine prima del 1° ottobre, quando le celebrazioni per il 70esimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese potrebbero essere guastate dai manifestanti: “Ci siamo accordati per una celebrazione solenne ma modesta, perché nessuno si aspetta che la situazioni possa sbloccarsi prima di allora”.
Alla diffusione del documento audio, è seguita una dichiarazione della stessa Lam, che ha tentato di ridimensionare un contenuto che pare sia stato poco gradito a Pechino: “Non ho mai pensato di dimettermi, e so di poter guidare la mia squadra verso la soluzione della crisi”. Non è la prima volta che la Reuters mette in imbarazzo Carrie Lam: settimana fa era riuscita a svelare che il capo esecutivo aveva chiesto a Pechino di ritirare in modo definitivo la legge sull’estradizione che ha scatenato le proteste, ma il governo ha rifiutato seccamente.
Anzi, secondo quanto diffuso dall’agenzia cinese “Xinhua”, la pazienza di Pechino sarebbe ormai agli sgoccioli: “Sta arrivando la fine per coloro che tentano di sconvolgere Hong Kong e attaccare la Cina”. A questo proposito si citano tre linee guida che “non devono essere superate”, pena conseguenze pesanti: per prima cosa non sarà tollerata l’intenzione di danneggiare la sovranità e la sicurezza nazionali, idem per l’intenzione contestare il potere delle autorità centrali e per finire non usare Hong Kong come leva per minare la terraferma. In caso contrario, secondo l’articolo, Carrie Lam potrebbe proclamare lo stato di emergenza, dando il via alla discesa dell’esercito che da settimane ammassa uomini e mezzi ai margini dell’ex colonia britannica.
Ma la risposta è arrivata dagli studenti, dai tempi di piazza Tienanmen una spina nel fianco del potere: all’apertura dell’anno scolastico in 10mila non si sono presentati in aula annunciando un giorno alla settimana di sciopero fin quando la democrazia non sarà ripristinata.