Il Myamnmar piomba nel caos: la “National League for Democracy”, il partito al governo vincitore delle recenti elezioni, ha annunciato che al termine di un raid messo a segno dall’esercito, la presidente Aung San Suu Kyi e un numero imprecisato di alti dirigenti del governo sono stati arrestati, dichiarando lo stato di emergenza.
Il paese si è svegliato con il quasi totale blackout delle comunicazioni e militari che pattugliavano gli edifici pubblici della principale città, Yangon: in televisione un unico canale è attivo, “Myawaddy”, controllato dall’esercito, e tutti gli altri sono stati oscurati.
Mentre filtrava la notizia che i leader del paese erano stati tratti in arresto a poche ore dall’apertura della prima sessione del nuovo parlamento, un conduttore ha annunciato che tutti i poteri erano stati consegnati al comandante dell’esercito Min Aung Hlaing.
Uno sviluppo che era nell’aria, giunto dopo diverse settimane in cui si registrava un peggioramento delle tensioni politiche nel paese. Secondo l’agenzia britannica “Reuters”, insieme a Suu Kyi sarebbe stato arrestato anche il presidente Win Myint, così come diversi ministri dei diversi stati interni: lo Shan e il Kayah.
Immediate le reazioni e le condanne a livello internazionale, con gli Stati Uniti che hanno ufficialmente chiesto ai militari del Myanmar di “rilasciare tutti i funzionari del governo e i leader della società civile e rispettare la volontà del popolo”. Il presidente Biden è stato informato sulla situazione dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, che poco dopo ha diffuso una nota: “Gli Stati Uniti si oppongono a qualsiasi tentativo di alterare il risultato delle recenti elezioni o di ostacolare la transizione democratica del Myanmar, e agiranno contro i responsabili se la situazione non arriverà ad una soluzione. Stiamo monitorando la situazione molto da vicino”.
Ma dal Myanmar, la replica è arrivata da un annuncio firmato dal presidente appena insediato, l’ex generale Myint Swe, in cui si sostiene che nel corso delle elezioni dell’8 novembre scorso si sarebbero verificati numerosi brogli elettorali che hanno portato all’arresto dei leader politici per “non aver intrapreso azioni e accettato la richiesta di rinviare le sessioni della due camere del Parlamento”.
Il partito di Aung San Suu Kyi ha ottenuto una vittoria schiacciante nel secondo scrutinio del paese dal 2011, al termine del governo militare, prendendo l’83% dei voti, mentre il Partito della Solidarietà e dello Sviluppo dell’Unione, sostenuto dai militari, si è limitato a 33 seggi su 476, molto meno delle aspettative. La commissione elettorale del Myanmar ha respinto le accuse di frode elettorale, affermando che eventuali errori - come nomi duplicati sulle liste elettorali - non erano sufficienti a influenzare il risultato del voto.
Il premio Nobel Suu Kyi è considerata un simbolo della democrazia in Myanmar, dove ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari come parte della sua lunga battaglia contro il governo militare. Dopo il suo rilascio, Suu Kyi ha guidato il suo partito verso una vittoria schiacciante nelle elezioni del 2015, aprendo le porte al primo governo civile dopo decenni di isolamento e autoritarismo. Tuttavia, la sua reputazione internazionale negli ultimi anni è stata offuscata dalle accuse di genocidio contro la popolazione musulmana dei Rohingya, sempre negata dal governo del Myanmar.
Con un post su Twitter, l’organizzazione non governativa per i diritti umani “Burma Rights UK” ha definito l’arresto di Suu Kyi devastante, chiedendo l’intervento delle potenze mondiali: “Questa situazione può essere solo affrontata con una forte risposta internazionale. L’esercito deve capire che ha commesso un grave errore di calcolo pensando di poter tornare indietro nel tempo”. Secondo l’eminente storico del Myanmar Thant Myint-U, “Le porte si sono appena aperte su un futuro molto diverso: ho la sensazione che nessuno sarà davvero in grado di controllare ciò che sarà. Ricordate sempre che il Myanmar è un paese inondato di armi, con profonde divisioni etniche e religiose e dove milioni di persone possono a malapena nutrirsi”.
Il capo dell'esercito Min Aung Hlaing è finito sotto l’obiettivo dei servizi segreti statunitensi dal dicembre 2019: è accusato di atrocità e violazione dei diritti umani contro il popolo Rohingya.