I “Rohingya” hanno un triste primato: sono il “popolo meno voluto al mondo” e una delle “minoranze più perseguitate” della Terra. Vivono in Myanmar, al confine con il Bangladesh, ma il governo birmano - al contrario delle 135 etnie che convivono nel Paese - non ha mai riconosciuto loro la cittadinanza, impedendogli di fatto la libera circolazione, oltre che di possedere terreni e obbligandoli per legge a non avere più di due figli per nucleo familiare. I Rohingya vivono, ma non è la definizione esatta, ammassati in poveri e affollatissimi campi profughi al di fuori dalla città di Sittwe, capoluogo del Rakhine. Una situazione incandescente che è esplosa nel 2017 con insurrezioni che l’esercito ha tentato di reprimere con migliaia di morti e la fuga di 800mila Rohingya verso in Bangladesh.
Dopo anni di interventi e mediazioni inutili, nel 2014 la Camera dei rappresentati degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione in cui sollecita il governo della Birmania a ripristinare i diritti umani, chiedendo il riconoscimento dei Rohingya a livello internazionale. Finalmente, nel settembre 2017, il Tribunale Internazionale dei Popoli ha sentenziato che le persecuzioni contro i Rohingya vanno considerate un vero e proprio genocidio.
Adesso, 57 nazioni hanno deciso di citare il Myanmar dinanzi alla Corte internazionale di giustizia. La causa arriva poche settimane dopo che le Nazioni Unite hanno avvertito che la violenta persecuzione del “popolo dimenticato” continua senza sosta nel nord-ovest del Myanmar.
Secondo una dichiarazione dello studio legale Foley Hoag, che sta seguendo al caso, una missione voluta dall’ONU e diffusa nell’agosto 2018, ha svelato che i militari del Myanmar “hanno l’intento genocida nella violenta campagna di espulsione dei rohingya. Il Myanmar è anche accusato di violenta oppressione contro gli Shan, i Kachin e altre minoranze etniche”.
Nel luglio scorso, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale ha chiesto l’avvio di un’indagine su possibili crimini di guerra da parte di alti funzionari militari e civili del Myanmar. Più recentemente, Yanghee Lee, un diplomatico sudcoreano inviato speciale delle Nazioni Unite, ha affermato che il Myanmar dovrebbe essere perseguito e le indicibili condizioni di quasi un milione di profughi sono tutt’ora estremamente pericolose. Alla fine di ottobre, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che include “nuove prove che i militari del Myanmar continuano a commettere atrocità contro le minoranze etniche”, fra cui arresti arbitrari, detenzione, tortura e omicidi.
David Stilwell, principale diplomatico statunitense per l’Asia, si è recato in Myanmar alla fine di ottobre per una visita in cui ha incontrato alti dirigenti birmani, tra cui Aung San Suu Kyi: “Gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati per le segnalazioni di continue violazioni dei diritti umani da parte dei militari in tutta la Birmania e per il devastante impatto della violenza su un intero popolo”, ha riferito mentre era ospite. Ma dal governo birmano nessuna reazione, solo silenzio.