Il 19 agosto scorso, il Tribunale rivoluzionario di Teheran, in Iran, ha emesso la sentenza contro la ventenne Saba Kord Afshari, condannata a 24 anni di reclusione con l’accusa di “diffondere la prostituzione e la corruzione”, oltre a “cospirazione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro lo stato”. La sua colpa, essere scesa in piazza per partecipare nell’agosto di un anno fa al “Mercoledì bianco”, una protesta pacifica in cui le donne si erano tolte il “hijab”, il velo: un gesto che in Iran può costare molto caro.
La giovane è stata liberata nel febbraio di quest’anno, usufruendo di un’amnistia che le aveva concesso due mesi di riduzione della pena, ma lo scorso giugno era nuovamente finita in manette per lo stesso motivo.
L’avvocato della giovane, Hosein Taj, ha annunciato l’intenzione di presentare ricorso, poiché la condanna a 24 anni supera di gran lunga la massima pena prevista dalla legge, che si ferma a 15 anni. Al fianco di Saba Kord Afshari si sta mobilitando il mondo intero, a cominciare da Masih Alinejad, giornalista iraniana che da dieci anni ha scelto l’esilio volontario, una delle attiviste che anche se a distanza è considerata una delle menti dei movimenti di protesta che minano la società iraniana.
La giovane è la seconda donna a subire una condanna per il gesto di sfida verso il governo degli ayatollah: la prima era stata Viva Movahed, la cui immagini su una cabina elettrica con in mano il velo aveva fatto il giro del mondo. Ma secondo il Centro per i diritti umani iraniano, dal gennaio ad oggi almeno 12 donne persone state condannate per atti di disobbedienza civile e altre 33 arrestate, in attesa di sentenza. Numeri, si precisa, che potrebbero essere approssimativi.