Per la civilissima Nuova Zelanda, Paese considerato fra i più all’avanguardia, civili, compatti ed efficienti del mondo, uno dei rari posti in cui potere politico e opinione pubblica non fanno quasi mai a pugni, i risultati di un’inchiesta della Royal Commission non sono uno shock, ma una delusione ancora più profonda.
Il rapporto, e per di più non ancora concluso, ha stimato che fra il 1950 ed il 2019 almeno 256mila persone ospiti degli istituti di assistenza statali e religiosi siano state vittima di violenza e abusi: soggetti vulnerabili e senza voce come bambini, giovani e adulti. Il numero tradotto in percentuale, se possibile, rende la vicenda ancora più agghiacciante: quasi il 40% delle 655.000 persone assistite nello stesso periodo in tutta la Nuova Zelanda.
“È un dolore imperdonabile destinato a restare come una cicatrice nella storia della Nuova Zelanda”, ha commentato il Ministro del Servizio Pubblico Chris Hipkins, che ha descritto il rapporto come “qualcosa molto difficile da leggere. Tutti i bambini sotto la tutela dello Stato dovrebbero essere al sicuro da ogni danno, ma troppo spesso è vero il contrario”.
Il rapporto afferma che la maggior parte delle vittime aveva un’età compresa tra i 5 e i 17 anni, con casi estremi di bimbi di 9 mesi e ragazzi di 20 anni. La maggior parte di loro ha subito abusi nell’arco di cinque, molti di dieci anni. Erano tutti vittime di aggressione fisica e abuso sessuale, con il personale di alcuni istituti psichiatrici che costringevano i maschi a violentare le femmine. Contro di loro erano anche usate scosse elettriche ai genitali e alle gambe, perquisizioni corporali ed esami vaginali, abusi verbali e insulti razziali. “A volte mi sottoponevano ad elettroshock due volte al giorno”, riporta in una delle tante testimonianze Anne, che nel 1979, a 17 anni, era stata ricoverata in un istituto psichiatrico.
A richiedere coraggiosamente l’inchiesta della Royal Commission era stato il primo ministro Jacinda Ardern due anni fa, spiegando che il Paese doveva prendere fiato e affrontare una volta per tutte “un capitolo oscuro” della sua storia. Qualche mese dopo, al termine delle primissime testimonianze, la premier ha ordinato di includere nei rapporti chiese e istituzioni religiose.
Secondo il rapporto, la probabilità che bambini e giovani ospiti negli istituti finissero per diventare vittime di abusi varia dal 21% al 42%: una cifra impressionante, scoprendo che il numero di persone passate attraverso gli istituti di assistenza è risultato sei volte superiore a quello stimato in precedenza.
“Si tratta di un serio problema sociale di vecchia data che deve essere risolto, anche perché ci sono prove che gli abusi continuano ad essere praticati ancora oggi”. Il rapporto include anche le testimonianze di vittime e sopravvissuti che hanno storie strazianti di abusi fisici e sessuali. In tanti, hanno raccontato di aver pensato o tentato il suicidio più volte.
Il rapporto riconosce che l’81% delle vittime sono bambini di origine Maori, spesso sottoposti a processi di “purificazione” da istituzioni religiose che praticavano l’abuso sessuale e fisico per tentare di cancellare l’identità culturale del popolo neozelandese. Lo scorso anno, migliaia di Maori erano scesi in piazza in tutta la Nuova Zelanda per chiedere la fine della pratica di portare via i bambini dalle famiglie considerate a rischio per affidarli alle cure dello Stato. Nel 2017, la vicina Australia ha presentato le scuse nazionali al termine di un’inchiesta durata cinque anni che ha svelato migliaia di casi di abusi sessuali commessi in gran parte presso istituzioni religiose e statali.