di Marco Belletti
Il concetto che “il fine giustifica i mezzi” è ampiamente conosciuto. È un aforisma fatto risalire a Niccolò Machiavelli, che in realtà nel suo libro “De principatibus” (poi divenuto famoso con il titolo “Il principe” dell’edizione postuma curata dal tipografo mantovano Antonio Blado) si riferiva esclusivamente alla ragion di stato: la salvezza di una nazione è necessaria e deve venire prima delle convinzioni etiche del principe, poiché egli non è il padrone bensì il servitore dello Stato.
Nel corso degli anni il concetto base machiavellico è stato travisato e – come spesso accade – il suo significato è stato stravolto e adattato alle diverse necessità, anche per giustificare comportamenti non corretti o addirittura contrari alla legge.
È soprattutto nei periodi di campagna elettorale che chi vuole essere eletto dimentica ogni scrupolo pur di conquistare l’agognata poltrona, con risultati spesso drammatici per il bene comune. L’elezione di Trump è forse uno degli esempi più emblematici, con una denigratoria campagna elettorale contro la sua avversaria Clinton, basata su elementi inconcludenti e non suffragati dai fatti. Eppure ora è lui a governare gli Stati Uniti.
In Italia a dare vita al moderno concetto di campagna elettorale furono le elezioni del 1948 che congelarono i successivi equilibri politici, con il dominio della DC in quasi tutta la penisola.
I politici, per spingere i cittadini a votarli, utilizzarono tutti gli strumenti allora disponibili: manifesti, cartoline, pieghevoli, fumetti, riviste, cinematografi… Le principali forme di comunicazione politica furono i comizi e i quotidiani, anche se questi ultimi all’epoca non erano molto diffusi. Il target (come si direbbe adesso) di questi due medium erano in realtà i militanti e i simpatizzanti di un partito, le persone che acquistavano i giornali o si recavano in piazza. È per questo motivo che i candidati più attenti utilizzarono manifesti e altri materiali, affissi o inviati a casa, che permettevano di raggiungere un ampio bacino di votanti, anche di partiti avversari o di elettori meno colti.
La campagna elettorale fu caratterizzata da un clima di forte agitazione sociale e nelle piazze in cui si organizzarono i comizi dei grandi leader nazionali non mancarono gli interventi dei cosiddetti “propagandisti”: accorrevano per applaudire i propri rappresentanti o per danneggiare gli avversari, sollevando dubbi e domande tra il pubblico o addirittura sabotando gli impianti di amplificazione.
Quattro anni dopo, nel 1952, Rosser Reeves – inventore della modalità pubblicitaria Unique Selling Proposition – decise di guidare la campagna elettorale di Dwight Eisenhower per la presidenza degli Stati Uniti. Campagna che passò alla storia innanzitutto perché costò oltre 2 milioni di dollari, cifra mai spesa fino ad allora. Inoltre, fu la prima al mondo a utilizzare spot televisivi: “Eisenhower answers America” era lo slogan che accompagnò il candidato alla Casa Bianca, grazie anche a videoclip molto ben realizzate nelle quali Eisenhower rispondeva alle domande degli elettori, fornendo risposte con estrema tranquillità. Infine, la campagna del 1952 segnò una svolta nella comunicazione politica americana in quanto Reeves commissionò un sondaggio – per far emergere quali fossero le questioni più urgenti da risolvere secondo i cittadini americani – a George Gallup, famoso statistico celebre per la sua teoria del campionamento e delle indagini d’opinione. Fu il suo team a preparare le domande cui rispose Eisenhower, centrando la campagna propagandistica sul prolungarsi della guerra in Corea, la corruzione dell’amministrazione, l’inflazione.
Reeves scelse come slogan per ogni apparizione del futuro presidente “I like Ike” (mi piace Ike, nomignolo con cui era conosciuto Dwight Eisenhower) che anticipò il concetto di trattare il politico esattamente come un prodotto di consumo da vendere nel miglior modo possibile.
Questa strategia oggi è ampiamente consolidata e l’arrivo dei social ha trasformato le campagne elettorali da momenti di confronto a una continua comunicazione esageratamente invadente, con messaggi politici alternati a contenuti privati. E l’efficacia – o quanto meno il raggiungimento dei target scelti – è ovviamente legata all’investimento economico.
Secondo Business Insider (che cita stime delle analisi Facebook sui post pubblicitari di natura politica) nel mese che ha preceduto le ultime elezioni in Italia la Lega ha speso circa 124 mila euro in pubblicità sulla pagina social di Matteo Salvini. Nel post su un giovane immigrato nordafricano arrestato, sono stati spesi fino a 5 mila euro con oltre 1 milione di visualizzazioni, in linea di massima maschi di età compresa tra i 45 e i 64 anni.
Sempre secondo Business Insider, il costo per la pagina Facebook di Silvio Berlusconi nell’ultimo mese è stato di circa 60 mila euro, con alcuni post per cui si è speso fino a mille euro: hanno fornito circa 500 mila like, arrivati da un target per lo più femminile tra i 45 e i 64 anni.
L’importo speso per la pagina Facebook di Giorgia Meloni è di circa 35 mila euro pagati da Fratelli d’Italia. I migliori post – rivolti a un pubblico maschile dai 18 anni in su – sono stati pagati fino a mille euro, generando 200 mila “impression”.
Molto più basso l’investimento del Partito Democratico sulla pagina Facebook di Nicola Zingaretti: meno di 1.500 euro. Il post più visto ha ricevuto un massimo di 500 mila like ed è stato pagato meno di 500 euro, rivolgendosi a donne e uomini dai 18 anni in su.
E se Zingaretti spende poco, Di Maio batte ogni record, in quanto secondo Business Insider il leader del Movimento 5 Stelle non ha pagato Facebook per nessuno dei suoi numerosi post.
Visti i risultati delle ultime elezioni, sembrerebbe che senza fare politica in modo demagogico e populista non si viene eletti. Sono soprattutto gli investimenti sui social – con post che hanno ben poco di sociale o politico e che oscillano tra pettegolezzi, chiacchiere e maldicenze – che permettono ai politici di accaparrarsi la poltrona.
“Povera patria schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore” cantava Battiato…