di Marco Belletti
Gaetano Perusini è stato un medico italiano nato a Udine nel 1879 e morto l’8 dicembre 1915, dopo essere stato colpito alcuni giorni prima da schegge di granata mentre soccorreva commilitoni feriti sul fronte friulano durante una battaglia della Prima Guerra Mondiale. Benché sia scomparso a soli 36 anni e non abbia potuto proseguire l’attività di ricerca, il suo contributo alla definizione degli aspetti clinici e neuropatologici della demenza neurodegenerativa è stato fondamentale, tanto che il nome corretto della disfunzione da lui studiata è “malattia di Alzheimer-Perusini”. Lo stesso Alzheimer nutriva una profonda stima per il più giovane collega italiano. Eppure oggi nessuno più si ricorda del suo nome e dei suoi lavori, e il nome della malattia da lui studiata è diventata semplicemente l’Alzheimer.
Piuttosto curiosamente, 11 giorni dopo la scomparsa di Perusini, il 19 dicembre 1915 morì a soli 51 anni anche lo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer, dopo che un mese prima era stato colto da un problema renale che lo aveva costretto a letto.
Alzheimer aveva descritto per la prima volta la patologia che porta il suo nome nel 1906. Oltre cent’anni dopo sono più di 30 milioni i malati in tutto il mondo e si stima che nel 2050 saranno almeno 120 milioni le persone colpite dalla malattia, circa l’1,2 per cento della popolazione terrestre.
L’Alzheimer è la più comune forma di demenza degenerativa invalidante: circa il 70% dei casi di demenza è dovuto a questa malattia. Di norma, si manifesta oltre i 65 anni e solo raramente in età più giovane. Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare fatti accaduti da poco tempo, quindi si manifestano afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento e infine si perdono anche le capacità mentali basilari: l’aspettativa media di vita è dai tre ai nove anni una volta diagnosticata la malattia.
Le sue cause e la progressione con cui peggiora non sono ancora chiare. La patologia è strettamente associata a placche e ammassi riscontrati nel cervello, ma non è conosciuto il motivo della degenerazione.
All’attuale stadio della medicina, i trattamenti terapeutici offrono lievi benefici e non possono fare altro che rallentare parzialmente il decorso della patologia. Finora sono stati realizzati qualcosa come 500 studi clinici con oltre 150 potenziali farmaci per trovare una cura all’Alzheimer, ma purtroppo ancora nessuno ha scoperto un trattamento che arresti o inverta il decorso della malattia.
Le ricerche più recenti hanno utilizzato i cosiddetti “anticorpi monoclonali” che prendono di mira le catene di amminoacidi presenti nel cervello dei malati di Alzheimer con l’obiettivo di ridurne l’accumulo. I nomi degli ultimi anticorpi utilizzati dai ricercatori medici sono pressoché impronunciabili: Solanezumab, Crenezumab o Aducanumab. La sperimentazione di quest’ultimo, nonostante avesse manifestato alcune interessanti opportunità, è stata sospesa alcuni giorni fa dopo che i dati emersi dai due studi più recenti hanno messo in evidenza la certezza che non avrebbe raggiunto nessun risultato positivo. L’azienda farmaceutica giapponese EISAI, titolare della sperimentazione con l’Aducanumab, ha ora focalizzato la sua attenzione su un altro anticorpo monoclonale sperimentale, il BAN2401, che agisce in modo simile ai precedenti. Il farmaco sarà provato su oltre 1.500 pazienti con lievi alterazioni cognitive o lieve demenza da malattia di Alzheimer.
Nonostante i fallimenti del passato, il costo già sostenuto per la sperimentazione (sembra 1 miliardo e 200 milioni di dollari in tre anni) e con soltanto un esile e presunto beneficio per pochi pazienti, i test proseguono in quanto – anche in considerazione degli ingenti investimenti già effettuati – vale la pena non lasciare nulla di intentato pur se alcuni investitori biotecnologici e analisti ritengono che tutti gli studi debbano essere immediatamente interrotti perché inutilmente costosi.
Quindi, senza nessun trattamento efficace contro l’Alzheimer in arrivo a breve termine: il miglior consiglio che forniscono i medici è provare a evitare che si manifestino i sintomi della demenza. Il primo tratto distintivo è il declino cognitivo e per rallentarlo possono contribuire cambiamenti nello stile di vita: svolgere stimolanti attività mentali come per esempio compilare i cruciverba, fare esercizio fisico e mantenere una dieta sana, senza grassi saturi, carboidrati raffinati e zucchero. Alcuni giorni fa il Daily Mirror ha riportato la notizia che mangiare un paio di cucchiaini di frutta secca al giorno aumenterebbe le funzioni cerebrali del 60 per cento. L’articolo – ovviamente enfatizzandone i risultati – riprende uno studio durato una decina d’anni (pubblicato sul Journal of Nutrition Health and Aging) in cui sono state valutare le diete di 5 mila cinesi over 55: sembra che chi ha consumato nel periodo del test più di 10 grammi di frutta secca al giorno ha meno probabilità di mostrare una diminuzione delle funzioni cognitive rispetto a chi ne ha consumato meno di 10 grammi.
Attenzione però, perché buona parte dei ricercatori scientifici non concordano con questo studio. Solo al 67 per cento dei partecipanti allo studio sono state testate almeno due volte la capacità cognitive e nei casi presi in esame le prestazioni del cervello sono sempre diminuite: per le persone che hanno mangiato più di 10 grammi di frutta secca al giorno il declino è stato semplicemente più lento. Nessun aumento delle funzioni cerebrali, quindi, come invece riportato dal Daily Mirror.
Ma sono numerosi i punti deboli dello studio: non ha tenuto in considerazione altri fattori (come salute generale, stile di vita, esercizio fisico) che influenzano l’evolversi della malattia ed è improbabile quindi che il consumo di un particolare alimento sia sufficiente per scongiurare la demenza. Inoltre, sono stati i partecipanti a segnalare il consumo di frutta secca compilando un questionario, elemento da interpretare con molta cautela in quanto non verificabile.
In sintesi, forse un paio di cucchiaini di frutta secca rallentano l’evoluzione della malattia ma è molto poco probabile che riducano il rischio che insorga e quasi certo che non migliorino le funzioni celebrali di chi già ne soffre.
L’Alzheimer è sicuramente una patologia grave che ha un’elevata incidenza in tutto il mondo (anche nei Paesi in via di sviluppo) con una conseguente crescita del costo economico e sociale: alcune indagini ritengono che nei prossimi dieci anni la spesa mondiale per la cura dei pazienti affetti da demenza aumenterà dell’85 per cento, passando dagli attuali 600 a oltre 1.100 miliardi di dollari all’anno. La malattia di Alzheimer diventerà così la patologia con il maggior impatto economico per i sistemi sanitari nazionali e le comunità sociali del pianeta.
Eppure, oggi la ricerca sulle demenze riceve finanziamenti sensibilmente minori rispetto a quanto stanziato, per esempio, in favore della ricerca contro il cancro.