Dal 5 giugno 1981, giorno in cui fu individuato per la prima volta in cinque omosessuali di Los Angeles, in buona parte del mondo, se preso per tempo l’Aids è diventata una malattia cronica non più mortale. Lo scorso marzo, i giornali scientifici hanno rivelato la vicenda del “paziente di Londra”, com’è chiamato un uomo che dopo un trapianto di cellule staminali non presenta più alcuna traccia del virus dell’Hiv.
Ma è ancora più recente una doccia fredda, svelata da uno studio pubblicato sul “Journal of Acquired Immune Deficiency Syndrome”, in cui si parla per la prima volta di un nuovo ceppo della famiglia “M”, un sottotipo del virus ritenuto colpevole di aver diffuso la pandemia. Lo studio, realizzato dagli “Abbott Laboratories” in collaborazione con l’Università del Missouri di Kansas City, dimostra la capacità del virus, diffuso in diversi sottotipi, abbia sviluppato la capacità di cambiare e mutare nel tempo.
È il primo nuovo ceppo dell’Hiv di gruppo M identificato da quando nel 2000 sono state stabilite le linee guida per la classificazione dei sottotipi. “È una vera sfida per i test diagnostici”, ha commentato Mary Rodgers, coautore del rapporto e principale scienziato della Abbott. La sua azienda testa più del 60% dell’offerta mondiale di sangue alla ricerca di nuovi ceppi, così da rilevarli e classificarli con precisione.
Secondo il dottor Anthony Fauci, direttore del “National Institute of Allergy and Infectious Diseases”, i più moderni trattamenti contro l’Hiv sono efficaci contro questo e altri ceppi, ma l’identificazione di uno nuovo fornisce una mappa più completa di come si evolve la malattia. “Non c’è motivo di farsi prendere dal panico o addirittura di preoccuparsi: non ci sono molte persone che ne sono infettate”.
Perché la comunità scientifica possa dichiarare di trovarsi di fronte ad un nuovo sottotipo, devono essere rilevati tre casi: i primi due sono stati individuati in Congo nel 1983 e nel 1990. I due ceppi erano molto insoliti e non corrispondevano ad altri ceppi: il terzo campione trovato in Congo è stato raccolto nel 2001 come parte di uno studio volto a prevenire la trasmissione del virus da madre a figlio. Il campione era piccolo, e mentre sembrava simile ai due campioni più vecchi, gli scienziati hanno deciso di testare l’intero genoma per essere sicuri. All’epoca, non esisteva la tecnologia per determinare se questo fosse un nuovo sottotipo.
Così, gli scienziati della Abbott e dell’Università del Missouri hanno sviluppato nuove tecniche per studiare e mappare il campione del 2001: “Come cercare un ago in un pagliaio, e poi tentare di tirare fuori l’ago con una calamita”. Le equipe sono state in grado di sequenziare completamente il campione, il che significa un quadro completo di ciò che è, e determinare che si tratta del sottotipo L del Gruppo M.
Non è chiaro come questa variante del virus possa avere un impatto diverso sull’organismo: le attuali terapie contro l’Hiv possono combattere un’ampia varietà di ceppi virali, e si ritiene che possano combattere anche il nuovo. “La scoperta ci ricorda che per porre fine alla pandemia di Hiv dobbiamo continuare a pensare che questo virus si evolve di continuo e utilizzare gli ultimi progressi nella tecnologia medica e le risorse per monitorarne l’evoluzione”, è stato il commento della dottoressa Carole McArthur, professore del dipartimento di scienze orali e cranio-facciali presso l’Università del Missouri.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa 36,7 milioni di persone al mondo convivono con l’Hiv, e l’UNAIDS stima che nel 2016 siano state infettate circa 1,8 milioni di persone.