Di Marco Belletti
La Giordania può essere presa a esempio di come sia possibile integrare i rifugiati nel tessuto sociale locale evitando al massimo i traumi sia per chi deve accogliere sia per chi invece ha dovuto abbandonare i propri averi per sfuggire a guerre o carestie.Regno costituzionale indipendente dal 1946, nato dalla spartizione dei territori nel Medio Oriente alla fine del secondo conflitto mondiale tra Francia e Regno Unito, la Giordania non ha giacimenti petroliferi e deve quindi basare la sua economia sull’agricoltura e soprattutto sul turismo, anche grazie a cinque siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO: Petra (una delle sette meraviglie del mondo), Qusayr Amra, Umm al-Rasas, Uadi Rum e Al-Maghtas.
Attualmente il re della Giordania è ʿAbd Allāh II che 1999 ha ereditato la corona dal padre Hussein, che aveva governato la nazione fin dal 1952. Grazie al matrimonio dell’attuale monarca con la regina Rania al-Yasin di origini palestinesi, i rapporti tra le due popolazioni sono migliorati con una quasi totale eliminazione della conflittualità.
L’economia pur stabile della nazione araba ha dovuto fare i conti negli ultimi anni con un aumento dei rifugiati: oltre a quelli “storici” arrivati da Israele, sono oggi circa 1 milione 300 mila i siriani che vivono in Giordania, su una popolazione complessiva di 10 milioni di abitanti. Un impatto decisamente elevato, pari al 10 per cento degli abitanti, davvero problematico se paragonato alle 131 mila persone giunte in Italia. Per avere la stessa proporzione giordana, i rifugiati nella nostra nazione dovrebbero essere circa 6 milioni.
Inoltre, non è vero che il nostro Paese stia affrontando un’emergenza a livello europeo, visto per esempio che in Svezia – dove la popolazione è circa un sesto di quella italiana – i rifugiati sono 186 mila e in Germania (82 milioni di abitanti) i rifugiati sono 478 mila.
Quanto sta avvenendo in Giordania è stato analizzato da Jackline Wahba, docente di Economia all’università di Southampton, che ha descritto il suo lavoro su The Conversation, il sito web che pubblica lavori universitari provenienti da ogni parte del mondo.
Wahba ritiene che lo spostamento forzato è ormai diventato una sfida globale, con 69 milioni di profughi tra il 2007 e il 2017, con un forte incremento negli ultimi anni causato anche dal conflitto siriano, iniziato nel 2011. Complessivamente sono quasi 6 milioni 500 mila i siriani fuggiti dalla patria. Si tratta quindi di una vera crisi umanitaria che tuttavia, al contrario di altre, ha suscitato nell’opinione pubblica sentimenti positivi e di simpatia pur con la preoccupazione di gestire un flusso così massiccio di persone.
Per quanto riguarda la Giordania, nel 2016 ha firmato un accordo con l’Unione europea consentendo ai rifugiati siriani di entrare legalmente nella nazione e di vedersi assegnato un lavoro in cambio di aiuti umanitari, assistenza finanziaria e concessioni commerciali da parte dell’Europa. Si tratta del “Jordan Compact” e Wahba ne ha studiato le conseguenze sul mercato del lavoro giordano, scoprendo che non ha avuto effetti negativi su offerte o salari: i giordani che vivono in aree ad alta concentrazione di rifugiati non hanno risultati peggiori rispetto ai connazionali che hanno a che fare con un minor flusso di rifugiati.
Secondo la docente dell’università di Southampton esistono numerosi motivi per cui il forte afflusso di rifugiati siriani ha avuto un impatto minimo sulla situazione occupazionale in Giordania: quasi la metà di loro ha meno di 15 anni e solo il 23 per cento fa parte della forza lavoro, percentuale che sale al 45 per cento per gli uomini e scende al 4 per cento per le donne.
Obiettivo del Jordan Compact era fornire a 200 mila rifugiati siriani l’accesso al lavoro, ma il ricorso a questo strumento è stato molto basso, tanto che secondo il ministero del Lavoro giordano alla fine del 2017 ne avevano usufruito solo 87 mila richiedenti.
Secondo il censimento della popolazione giordana effettuato nel 2015 la nazione ospita un altro milione e 600 mila stranieri non siriani. Recenti indagini effettuate nel mondo del lavoro giordano dimostrerebbero che la conflittualità tra abitanti locali e immigrati sarebbe evidente – pur se molto limitata – soltanto in pochi settori, come per esempio l’edilizia e alcuni lavori di compravendita.
Inoltre, le politiche governative hanno permesso che anche i giordani potessero usufruire degli aiuti in arrivo dall’estero per ottenere posti di lavoro. Infatti, il flusso di denaro arrivato grazie ai contributi stranieri, sia internazionali sia privati, ha contribuito a compensare il deficit di bilancio, finanziare progetti pubblici e sostenere su scala nazionale servizi come scuole, ospedali e trasporti.
In pratica è stato grazie alla creazione di posti di lavoro, soprattutto nel settore pubblico, utilizzando il denaro ricevuto per accogliere e assistere i rifugiati che si sta permettendo a tutti di lavorare con una più completa integrazione.
Che si tratti di un circolo virtuoso, secondo Wahba è dimostrato dal fatto che l’aumento della domanda di servizi pubblici da parte dei rifugiati – in particolare istruzione e sanità – ha stimolato il governo giordano ad aumentare la fornitura di tali servizi, aumentando a sua volta la domanda di lavoratori (quasi esclusivamente giordani) in questi settori.
Il risultato cui giunge l’analisi della docente è che fornire opportunità di lavoro legale ai rifugiati è favorevole per il mercato del lavoro. Inoltre, l’afflusso di aiuti stranieri in Giordania per rispondere ad alcune delle esigenze dei rifugiati e il Jordan Compact (che include aiuti e concessioni commerciali a sostegno dell’occupazione per i giordani) hanno ricoperto un ruolo importante nel creare domanda di lavoro.
In sintesi, l’esempio giordano mette in evidenza come sia essenziale garantire risorse e servizi pubblici per sostenere i rifugiati in modo che agiscano come un volano positivo per l’economia di un’intera nazione.