Di Marco Belletti
Quest’anno festeggia il mezzo secolo di vita una interessante teoria formulata dallo psicologo canadese Laurence Peter nel 1969: si tratta del “principio di incompetenza”.Peter iniziò la carriera di docente nel 1941 e dal 1964 lavorò all’università della California del Sud come professore associato e coordinatore di un programma rivolto ai ragazzi con disturbi emotivi.
Nel 1969, appunto, pubblicò il saggio “The Peter Principle” che gli diede fama mondiale, con cui mise in evidenza in chiave satirica i meccanismi alla base delle carriere professionali.
Secondo lo psicologo, in ogni gerarchia un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza e con il tempo ogni posizione lavorativa tende a essere occupata da un impiegato incompetente per i compiti che deve svolgere: quindi, tutto il lavoro è in realtà svolto dagli impiegati che non hanno ancora raggiunto il loro livello di incompetenza.
Il concetto espresso da Peter dettaglia un precedente assunto, espresso da un altro docente – lo statunitense William Corcoran – che affermò: ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà.
Durante ricerche per eventuali azioni correttive negli impianti nucleari, Corcoran mise in evidenza la tendenza a utilizzare impianti e apparati – che avevano dimostrato di essere efficaci per un determinato lavoro – in compiti al di là del loro scopo. Questo valeva in ogni ambito: sia che si trattasse di aspirapolvere al posto di sistemi professionali per aspirare fumi e sostanze tossiche, sia personale di uffici amministrativi in sostituzione di gruppi di lavoro con competenze specifiche per preparare eventuali piani di evacuazione in emergenza.
Gli stessi principi sono stati applicati da Peter. Secondo lo psicologo canadese in un’azienda con una struttura organizzativa gerarchica, gli impiegati sono promossi in base alla valutazione delle capacità dimostrate nello svolgere il lavoro che stanno facendo. Pertanto, finché si dimostreranno in grado di assolvere i compiti assegnati, saranno promossi al livello superiore in cui dovranno eseguire un compito differente. Alla fine di questo processo, gli impiegati raggiungeranno il loro livello di incompetenza, cioè la condizione in cui non sono in grado di svolgere il compito assegnato e di conseguenza non hanno più nessuna possibilità di essere ulteriormente promossi, ponendo fine alla carriera in azienda.
Per Peter l’incompetenza non è legata a compiti più difficili di quelli che l’impiegato è in grado di svolgere, ma semplicemente al fatto che questi compiti sono diversi da quelli svolti in precedenza e richiedono quindi esperienze lavorative che la persona non possiede. Per esempio, un ottimo detective in grado di svolgere in modo eccellente la sua attività contro la malavita in strada, una volta promosso tenente e trasferito alla sede centrale non dovrà più dare la caccia ai delinquenti, ma gestire il team di detective sotto di lui. E se non ha capacità gestionali e di relazioni umane, terminerà la sua carriera a quel livello e svolgerà male il suo compito. In pratica, non sempre promuovendo una persona le si fa del bene, così come non sempre lo si fa all’azienda per cui lavora.
In questa teoria è preso di mira il concetto stesso di meritocrazia, cioè il credere che siano davvero i migliori a essere i più abili a governare processi e istituzioni e che con le responsabilità sia necessario concedere una paga più alta da permettere una miglior condizione di vita.
Peter osserva che quando tutti hanno raggiunto il proprio livello d’incompetenza, bloccandosi, le organizzazioni tendono nel tempo a essere dominate da incompetenti. Forse in parte scherzava e la sua era una sorta di spiritosaggine, ma la logica inattaccabile del suo ragionamento non è mai stata messa in dubbio e la questione è stata studiata a fondo, soprattutto nelle organizzazioni di vendita dove i venditori migliori – identificabili facilmente e con precisione grazie ai risultati raggiunti – spesso vengono promossi a ruoli direzionali. E la recente ricerca “Promotions and the Peter Principle” di Alan Benson, Kelly Shue e Danielle Li (rispettivamente professori alle università del Minnesota, di Yale e al Massachusetts Institute of Technology) ha dimostrato la validità e l’attualità della teoria espressa da Peter.
Per esempio, l’indagine ha messo in evidenza che su quasi 40 mila venditori di 131 aziende statunitensi, la capacità di vendere è negativamente correlata alla performance nel ruolo da dirigente. I team diretti da manager che erano ottimi venditori e che sono stati promossi per avere abbondantemente superato gli obiettivi di vendita, ottengono risultati peggiori del 7,5 per cento rispetto a quelli raggiunti dai gruppi guidati da dirigenti che erano stati meno capaci a vendere.
Quindi, la meritocrazia basata esclusivamente sulla promozione dei più abili sembrerebbe essere più una frode motivazionale nei confronti di chi forse meriterebbe davvero quelle posizioni, assegnate invece ad altri sulla base di scelte non corrette.
Nel XIX canto dell’Inferno – nella terza bolgia dell’ottavo cerchio dove sono puniti i simoniaci, cioè chi comprava e vendeva cariche ecclesiastiche – Dante scrivendo “io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi” affermava che mettere in discussione la meritocrazia significava esporsi a facili critiche, secondo cui si persegue il losco fine di non agevolare i meritevoli.
Chissà se la pensa ancora così dopo aver scambiato quattro chiacchiere con Peter, che lo ha raggiunto nel 1990.