“La prima vittima di ogni guerra è la verità”. Una frase dello scrittore e politico britannico Arthur Ponsonby che calza perfettamente agli “Afghanistan Papers”, la corposa inchiesta del “Washington Post” che racconta 18 anni di bugie sulla guerra iniziata un mese dopo l’attentato di New York dell’11 settembre 2001, e tutt'ora in corso. Fu George Bush a volerla, per debellare i nemici di Al-Qaeda, rovesciare i talebani ed eliminare Osama Bin Laden, il diavolo in persona.
Ma dietro c’era una verità diversa: dopo un’accesa battaglia legale lunga tre anni per ottenere l’autorizzazione ad accedere a file riservati, i giornalisti del WP hanno passato al setaccio oltre 2.000 pagine fra note, trascrizioni e interviste a vertici militari e statistiche che hanno come fine ultimo nascondere gli errori delle amministrazioni, i dubbi dell'intelligence e le perplessità del Pentagono. Dai documenti appare chiaro che sei mesi dopo l'inizio del conflitto, gli Stati Uniti avevano già raggiunto quasi tutti gli obiettivi chiave, dalla distruzione di Al-Qaeda a gettare nel caos i talebani, ma malgrado questo non mollano e imprimono al conflitto pieghe diverse, con “strategie fatalmente imperfette su ipotesi errate di un paese che non capivano”. L'Afghanistan diventa una guerra che non ha più una strategia, ma è figlia di un’improvvisazione quasi quotidiana che dalle mani di Bush figlio passa in quelle di Obama. Fra la fine del 2001 e l’inizio dell’anno successivo, Bush sposta l’attenzione verso l’Iraq, lasciando all’Afghanistan un ruolo marginale, con il risultato di lasciare campo libero al ritorno dei talebani, considerati nemini ma senza che nessuno sappia esattamente il perché. Dopo Bush ci prova Obama, che riversa nel Paese asiatico tonnellate di aiuti promettendo di riportare a casa le truppe statunitensi nel giro di poco e di instaurare una democrazia duratura. Ma neanche questa finisce per essere una soluzione vincente: completa la vendetta dando il via libera all'uccisione di Bin Laden, ma la fretta di mostrare risultati all’America e gli stretti legami con il governo afghano, corrotto all’ennesima potenza, hanno lo stesso effetto di prima: lasciare spazio ai talebani, con cui Obama almeno tenta di trovare un dialogo.
Nei documenti, decijne di alti ufficiali dell'esercito, della marina e dell'aviazione americana pongono domande semplici e disarmanti a cui nessuno sa rispondere: chi è il nemico? Quali sono i nostri alleati? E i nostri obiettivi? Come sapremo di aver vinto? Non lo sa nessuno, questo è il problema.
Domande che nelle basi in mezzo alla polvere dell'Afghanistan si facevano anche i 775mila militari americani che in 18 anni si sono alternati nel martoriato Paese asiatico: 2.300 sono morti, più di 20mila sono tornati a casa con ferite più o meno gravi e molti di più sono quelli che ancora oggi accusano stress post-traumatici del tutto simili a quelli di chi li aveva preceduti nel conflitto del Vietnam. Un’altra guerra tanto inutile quanto impossibile da vincere.