L’ultima battaglia a cui il mondo poteva pensare di assistere è quella che sta andando in scena nel magico universo per eccellenza, la Disney. Eppure, ogni tanto si finisce per scordarsi che la fabbrica dei sogni di tutti i bambini del mondo non è solo abitata da paperi e topi, perché quelli sono soltanto la punta dell’iceberg di un colossale impero dalle regole spietate che macina miliardi di dollari ogni anno.
È contro tutto questo che da sempre fa sentire la sua voce Abigail Disney, nipote di Walt e Roy, i due fratelli partiti disegnando un topolino in un garage di Los Angeles e finiti sul tetto di Hollywood. Abigail, accompagnata da un cognome pesante, è sempre stata una spina nel fianco per i papaveri della Disney e dell’America intera. Per lei, il divario fra ricchi e poveri negli Stati Uniti e troppo marcato, evidente, discriminatorio, e senza timore di essere smentita, porta ad esempio l’azienda di famiglia, con centinaia di dipendenti sfruttati e pagati una miseria mentre i papaveri del consiglio di amministrazione si portano a casa appannaggi che da altre parti varrebbero un paio di punti di Pil.
Ma adesso, nel periodo della pandemia che ha costretto la Disney a chiudere i propri parchi a tema e imposto lo stop a Hollywood, Abigail è un fiume in piena che ha appena lanciato un attacco violentissimo verso l’azienda che porta il suo nome, ancora una volta accusata di proteggere bonus e dividendi trimestrali dei dirigenti licenziando in tronco 100mila dipendenti che si guadagnavano da vivere nei parchi e negli hotel, sorridendo ai bambini e tenendo i pavimenti puliti a specchio, perché tutto nell’universo Disney appaia sempre pulito, scintillante e festoso.
“Stiamo parlando di cifre con cui si sarebbero potuti pagare tre mesi di stipendio ai dipendenti, invece di abbandonarli al loro destino in un momento in cui lavoro non ce n’è e quasi sicuramente finiranno sotto i ponti, se non hanno una famiglia ad accoglierli”.
La compagnia, in forte imbarazzo, non ha rilasciato alcun commento, facendo circolare una voce secondo cui i dipendenti continueranno a ricevere la copertura sanitaria assicurativa, ma giocoforza sono andati ad aggiungersi ai milioni di persone che hanno presentato domanda di disoccupazione negli Stati Uniti.
“Il licenziamento di massa della più grande società di intrattenimento del mondo - che ha parchi negli Stati Uniti, in Francia, Cina, Hong Kong e Giappone - riguarda circa la metà della sua forza lavoro. E rappresentando questa il 45% delle spese di gestione e il 33% delle spese totali, significa un notevole risparmio”, ha dichiarato Alexia Quadrani di JPMorgan, stimando il risparmio mensile per le casse Disney di 500 milioni di dollari.
In segno di solidarietà con la situazione precaria in cui versa l’America, per quest’anno l’ex amministratore delegato Bob Iger ha rinunciato al resto del suo stipendio di 3 milioni di dollari, e il suo sostituto Bob Chapek ha scelto di ridursi della metà lo stipendio base di 2,5 milioni di dollari. Ma nessuno dei due ha accuratamente citato i bonus aziendali, che superano di gran lunga i loro stipendi. Secondo alcune stime, nel 2018 Iger ha ricevuto 65,6 milioni di dollari di incentivi e 46 milioni lo scorso anno, mentre il bonus di Chapek dovrebbe essere circa il 300% del suo stipendio, portando a casa “non meno di 15 milioni di dollari” in incentivi a lungo termine solo quest’anno, a cui aggiungere i 47,5 milioni dello scorso anno.
In compenso, i dipendenti Disney hanno lottato anni per un salario minimo di 15 dollari all’ora, che significa circa 31.200 dollari all’anno, a patto di avere lo stipendio. “Quindi, il compenso di Iger per quest’anno ammonterà a 1.500 volte la loro retribuzione - tuona Abigail Disney – è sbagliato: la nostra capacità di essere davvero un esempio per il mondo inizia con i membri del nostro cast, che creano la magia ogni giorno. Il nostro impegno nei loro confronti dev’essere la massima priorità. La Disney si trova di fronte ad un paio d’anni difficili, con sfide addirittura esistenziali, ma questo non costituisce un via libera per il saccheggio continuo della dirigenza”. Le fa eco l’analista Rich Greenfield, secondo cui “Avrebbero potuto tranquillamente permettersi non licenziare nessuno”.