Sono gli otto minuti e 48 secondi che stanno costando all’America una delle peggiori situazioni di sempre. È il tempo in cui l’agente Derek Chauvin ha tenuto premuto il suo pesante ginocchio sul collo di George Floyd, fermato da una pattuglia della polizia di Minneapolis con l’accusa di aver tentato di pagare un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa.
E l’America, il paese che non sa stare fermo, per la prima volta azzoppato dalla pandemia, è esplosa di rabbia. Bastava una scintilla, una qualsiasi, lo sapevano tutti: c’era sotto la cenere tutto il rancore possibile per assistere all’ennesima dimostrazione di evidente disparità fra le classi sociali della più grande superpotenza del mondo. Neanche il lockdown aveva saputo livellare tutto: ai primi morti per coronavirus, i ricchi erano volati nelle residenze in Florida o negli Hamptons, e i rimasti poveri in coda per gli ospedali e i “food stamps”, i buoni statali distribuiti per evitare che qualcuno muoia di fame.
“Rodney King, Brown, Floyd: i nomi cambiano, il colore no - commenta amaro Andrew Cuomo, governatore di New York - io sto sempre con chi protesta, ma dalla parte della violenza mai”. Non proprio lo stesso credo pacifista di Trump, che all’inizio delle proteste aveva twittato una perla degna di John Wayne dalla sella del suo cavallo stagliato contro il tramonto su una prateria: “Quando inizia il saccheggio, inizia la sparatoria”. Chissà se era contento quando ha scoperto che qualcuno gli ha dato retta tirando fuori un paio di pistole che hanno lasciato a terra un 19enne a Detroit e una guardia giurata a Oakland. O ancora quando ad Atlanta in tanti se la sono presa con il quartiere generale della “CNN”, o forse ancora di più nelle cinque ore in cui qualche centinaio di persone ha tenuto sotto scatto la Casa Bianca, dove in tanti non lo vogliono più vedere dopo una serie di disastri a cui si aggiunge anche questo.
Ma ormai è l’America intera ad essere un’immensa polveriera che schiuma rabbia e chiede vendetta: dopo mesi di silenzio irreale, la gente si è ripresa le strade e giura di voler andare fino in fondo, perché mentre quei due dalla Nasa volano nello spazio, si riesce e ancora a morire per il colore della pelle. E non sono bastati a placare le proteste neanche l’arresto del poliziotto con un passato da teppista in divisa, o il risultato dell’autopsia, secondo cui George Floyd non è morto per soffocamento o asfissia, ma per “preesistenti condizioni precarie di salute e potenziali sostanze tossiche”. Non ci crede nessuno, perché comunque senza quel ginocchio George sarebbe ancora qui.
A Minneapolis, dove tutto è cominciato e dove dal 1929 non si vedeva così tanta gente per strada, sono attesi 2.500 uomini della Guardia Nazionale. Non va meglio a Louisville, St. Louis, Cincinnati, Portland, Denver, Columbus, Philadelphia, New York e Houston, dove in 200 sono finiti in manette mentre in aria volavano molotov e spray al peperoncino. Solo una parte dei 1.500 arresti avvenuti in 25 città americane, alcune bloccate dal coprifuoco.
Impossibile contare le auto date alle fiamme, le pompe di benzina, gli uffici postali, gli sportelli bancomat e i ristoranti presi d’assalto: ovunque ci fosse un muro o uno spazio lasciato livero sempre la stressa frase: “I can’t breathe”, non riesco a respirare. Le ultime parole di George Floyd, ma anche lo stesso urlo di dolore di un Paese intero.