E alla fine, è la speaker della camera Nancy Pelosi a dare l’annuncio ufficiale: “Le sue azioni hanno violato seriamente la Costituzione, è in gioco la nostra democrazia e non abbiamo altra scelta se non quella di agire”. È una frase a cui manca il soggetto, ma è facile capire che fra le righe si nascondano il nome ed il cognome di colui che, comunque andrà questa storia, sarà ricordato come il più discusso e discutibile presidente americano di sempre.
Le parole di Nancy Pelosi rimbombano sulle televisioni di tutti gli Stati Uniti, accompagnate dalla frase fatidica: “In America nessuno è al di sopra della legge, neanche il presidente. Per cui chiedo alle nostre commissioni di procedere con gli articoli dell’impeachment”. È la svolta della procedura, la fase considerata cruciale poiché lascia ai membri dell’aula la facoltà di esprimere un parere sugli articoli che compongono le 300 pagine della messa in stato d’accusa. Per approvarla alla Camera serve la maggioranza dei voti più uno: 218 su 435 votanti. Ma è proprio qui che iniziano i problemi, perché se alla Camera i Dem possono contare su 233 voti contro i 197 dei Repubblicani, in Senato la situazione si ribalta: 53 voti Repubblicani contro i 47 Dem, e per procedere all’impeachment serviranno 67 voti totali.
Numeri che non importano a Trump, la cui rabbia esplode pochi minuti dopo con uno spezzatino di tweet al curaro: “Quei nullafacenti di estrema sinistra dei Democratici hanno annunciato che cercheranno di mettermi in stato d’accusa sulla base di nulla. Avevano appena abbandonato la ridicola inchiesta di Mueller e ora si aggrappano a due telefonate perfette con il presidente ucraino. Tutto questo ha un significato ben preciso: l’importante e quasi mai usato atto di impeachment potrebbe diventare un’abitudine per attaccare i futuri presidenti”.
A rendere meno agevole la posizione di Trump ci hanno pensato tre fra i più autorevoli costituzionalisti americani, tutti d’accordo con l’idea che l’impeachment sia diventato urgente, oltre che assolutamente necessario: Noah Feldman, Pamela Karlan e Michael Gerhardt, rispettivamente delle law school di Harward, Standord e North Carolina University. “La sua condotta è peggiore di qualsiasi presidente precedente: Trump ha cercato di creare una monarchia in questo paese, ha commesso crimini e misfatti abusando in modo corrotto della presidenza”, ha tuonato Gerhardt, seguito da ruota da Feldman: “Un presidente è chiamato ad opporsi in modo fermo alle interferenze straniere nelle nostre elezioni, mentre lui le ha addirittura sollecitate”. Per finire con Pamela Karlan, che ha tirato in ballo Barron, il figlio di Donald e Melania: “Trump non è un sovrano, la Costituzione americana non gli concede alcun titolo nobiliare. Quindi può anche chiamare suo figlio Barron, ma non farne un barone”. L’unica voce contraria è quella di Jonathan Turley della George Washington University Law School, secondo cui ci sono sul campo fatti che meritano un’indagine, ma considera “sgangherata e lacunosa” l’inchiesta che avrebbe portato alla stesura degli articoli dell’impeachment.
Nelle stesse ore, Trump e signora hanno lasciato il vertice Nato di Londra dopo aver annullato la conferenza stampa finale: al presidente non è andato giù il fuori onda in cui diversi leader sembravano prendersi gioco di lui.