Per ogni nuova strage che si consuma negli Stati Uniti ci sono vittime dimenticate, che fanno statistica e numeri ma restano sempre storie marginali. I media si concentrano sempre sugli assassini, sulle loro storie e sui motivi che possono spingere qualcuno a svegliarsi una mattina e aver voglia di uccidere. Poi ci sono le storie di chi è morto, tutte drammatiche, a volte frutto di coincidenze fortunate o per niente.
Restano messa da parte, dimenticate, le centinaia di persone che non pagano con la vita, magari finite in ospedale per ferite di poco conto e poi restituite alla propria esistenza, che però non sarà più come prima. Uno studio, appena diffuso negli Stati Uniti, si concentra proprio su di loro: le vittime senza nome, quelli che la morte e la violenza li hanno solo sfiorati e per il mondo sono gente fortunata assai.
Non è così. A distanza di anni da quei minuti di sangue e proiettili, gran parte di chi è scampato alla morte continua a soffrire di profondi danni psicologici: tanti quelli che hanno perso il lavoro, troppi coloro che cercano rifugio in alcool e droghe, tantissimi quelli che continuano ad accusare sintomi di stress post-traumatico e hanno perfino paura di uscire di casa.
Gli autori dello studio sottolineano che il trattamento psicologico verso chi scampa ad una strage dovrebbe cambiare in modo radicale: oggi si cerca di dimetterli velocemente dagli ospedali, convinti che qualche punto di sutura e una cura di ansiolitici possano bastare, ma troppo spesso senza alcun controllo che ne accerti la loro salute mentale. Sono le cifre a dirlo: il trauma da arma da fuoco è più difficile da recuperare rispetto ad altri. “Quando si tratta di armi, noi come società e come ricercatori prestiamo molta attenzione ai decessi. Ma ciò che non è preso in considerazione sono le persone che sopravvivono - ha commentato Michael Vella, principale autore dello studio, medico che ha iniziato la ricerca come borsista alla University of Pennsylvania e ora è un chirurgo alla University of Rochester - quello che abbiamo scoperto è che questi pazienti si trovano ad affrontare problemi di salute fisica e mentale che difficilmente spariscono anche dopo lungo tempo”.
Nel solo 2017, quasi 40mila persone sono state uccise negli Stati Uniti, più di qualsiasi altro anno a partire dal 1968, quando le agenzie federali hanno iniziato il conteggio delle stragi. Per quanto orribile sia quel numero, quello di chi è sopravvissuto è di tre volte superiore. Per monitorare gli effetti a lungo termine sui sopravvissuti, i ricercatori dell'Università della Pennsylvania hanno visionato 10 anni di cartelle cliniche per analizzare lo stato di 3.088 persone ferite da arma da fuoco che erano state portate al centro traumatologico dell’università di Philadelphia. Di coloro che sono sopravvissuti, 183 sono stati rintracciati e intervistati, mettendo a confronto la loro vita prima e dopo il trauma. Uno dei risultati più allarmanti è arrivato dallo screening dei pazienti che accusavano disturbi da stress post-traumatico: anche a molti anni di distanza, quasi la metà di loro continuava a risultare positiva.
Il rapporto, pubblicato qualche giorno fa sulla rivista “JAMA Surgery”, fa parte di una nuova ricerca sulle armi da fuoco che è aumentata dopo una decennale mancanza di finanziamenti, dati e sostegno politico. Le recenti sparatorie di massa hanno infuso nuove energie sul problema, e una nuova generazione di ricercatori sta cercando nuovi approcci per comprendere e ridurre l’ondata di violenza. E per fortuna, in assenza di finanziamenti federali sta arrivando denaro da privati, fondazioni e compagnie assicurative.
Poiché gran parte della ricerca sulle armi da fuoco si è concentrata sulle morti, la ricerca sugli effetti a lungo termine dei danni psicologici è relativamente scarsa di dati e informazioni. “Vale la pena approfondire l’argomento, perché è un pezzo del puzzle che semplicemente non è ancora stato studiato a fondo. Non sappiamo molto sui danni a lungo termine di coloro che sopravvivono, e questo tipo di analisi ci aiuta a capire il peso complessivo della violenza”.
Il passo successivo, hanno detto i ricercatori della University of Pennsylvania, è quello di sviluppare interventi che consentano agli ospedali di aiutare le vittime nelle conseguenze a lungo termine, problemi che possono comparire molto tempo dopo che le lesioni fisiche sono ormai guarite.